Cultura

Una tazza di cay ad Ararat

Una tazza di cay ad AraratDue giovani curdi in abiti tradizionali nel cortile del centro Ararat – Alessandro Romagnoli

Italia Da oltre un anno sul centro culturale curdo pesa l’ordinanza di sgombero del Comune di Roma. Un reportage fotografico racconta la vita di tutti i giorni, tra accoglienza e identità

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 27 aprile 2018

Il progetto fotografico. La bellezza può salvare quel che rischia di sparire

Il centro socio culturale curdo Ararat nasce a Roma nel 1999, all’interno del complesso in disuso dell’ex mattatoio di Testaccio, rione storico della capitale. Da sempre offre accoglienza e sostegno ai membri del popolo curdo che raggiungono Roma perché costretti ad abbandonare la propria terra a causa delle continue azioni repressive messe in atto nei loro confronti.

Il centro rappresenta per i curdi un importante luogo d’aggregazione, dove incontrarsi e continuare a vivere e condividere con chiunque lo desideri le proprie tradizioni, al fine di non disperdere un’identità culturale, ora più che mai, in pericolo.

Il gioco del backgammon, tra i più amati in Medio Oriente (Foto: Alessandro Romagnoli)

Su Ararat incombe la minaccia di un provvedimento di sgombero da parte della giunta capitolina. Appresa la notizia ho chiesto alla comunità curda l’opportunità di mostrare con un racconto fotografico il tesoro culturale che Ararat rappresenta per i curdi e per tutta la città.

Sono stato accolto con gentilezza e nei mesi in cui ho frequentato Ararat ho potuto conoscere a fondo la storia del Kurdistan e del suo popolo, ascoltando i racconti dei giovani e dei maestri più anziani. Il Newroz, il capodanno curdo che si festeggia il 21 marzo, è stata la prima grande festa a cui ho partecipato: sono rimasto affascinato dal gowend, la danza curda che si balla girando e tenendosi per mano intorno a un enorme fuoco.

Il grande fuoco del Newroz, lo scorso 21 marzo (Foto: Alessandro Romagnoli)

Ad Ararat abbiamo cucinato e mangiato insieme abbondanti stufati di carne e verdura preparati in enormi pentoloni. Ma protagonista indiscusso delle nostre giornate è stato il cay, il tè nero curdo. Ho imparato alcune parole di kurmanci, il dialetto curdo più diffuso, e le regole del backgammon, uno dei giochi più antichi al mondo di cui i curdi sono dei veri appassionati. Li ho visti sorridere, scherzare e preoccuparsi per le sorti dei loro connazionali in Siria e io con loro.

Ho stretto legami d’amicizia profondi e credo di aver riconosciuto l’anima di questo popolo, scegliendo di rappresentarla con l’unico codice comunicativo che ritenevo adatto: la bellezza. Ho sempre pensato che mostrare la bellezza di ciò che rischia di andare perso sia l’unico modo per scuotere l’anima e il pensiero della gente. Il progetto si chiama cay, la prima parola in curdo che ho imparato e perché di cay fumanti ne ho bevuti tanti.

Un ragazzo prepara il cay, il tè nero, nella cucina di Ararat (Foto: Alessandro Romagnoli)

Il popolo curdo merita come chiunque altro di poter vivere in pace sulla propria terra. Se voleste saperne di più vi aspettano ad Ararat per offrirvi un cay.

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di Chiara Cruciati

Due Newroz dopo la minaccia di sgombero incombe ancora su Ararat. A 15 mesi dall’ingiunzione emessa dalla giunta capitolina, è tutto congelato: il ricorso al Tar è stato presentato ma da allora tutto è fermo. Non la vita nel centro culturale curdo, che prosegue, una continuità che è la prima forma di resistenza.

Il 21 marzo scorso erano in tanti a festeggiare il capodanno curdo, a ballare intorno al fuoco e a ricordare, dal palco, il dramma che stava (sta) vivendo Afrin, il cantone curdo nel nord-ovest della Siria che proprio in quei giorni veniva occupato dalle truppe turche e dalle milizie dell’Esercito libero siriano.

Da allora 300mila civili restano sfollati, le loro case occupate e saccheggiate. Rifugiati, un destino che ha accompagnato generazioni di curdi, da secoli. Lo stesso Ararat è nato così, luogo di accoglienza che si è costruito da sé e che oggi è rifugio per le persone quanto per la loro identità.

Dal 1999 sono quasi 25mila i curdi transitati per il centro nato all’interno dell’ex Mattatoio di Testaccio e fondato dai rifugiati curdi arrivati in Italia con il leader del Pkk Abdullah ’Apo’ Ocalan (che poco dopo, rifiutato l’asilo politico dalle autorità italiane, veniva catturato dai servizi turchi in Kenya).

Vent’anni fa migliaia di persone in fuga dalla persecuzione turca si ritrovano a dormire per strada a Colle Oppio. Dopo due occupazioni, una a Piazza Bologna e una in via Nazionale e i conseguenti sgomberi, la terza funziona.

Nasce Ararat, nome non casuale: è il monte dove leggenda dice si arenò l’arca di Noè e il nome della nave che portò in Italia quei migliaia di curdi. Da allora Ararat è divenuto il cuore della comunità curda in Italia. Da qui sono transitati tantissimi rifugiati che hanno trovato un tetto, assistenza sanitaria e legale, gli spazi per far vivere le proprie tradizioni: la lingua, il ballo, le festività, anche le piante tipiche curde fatte crescere nel giardino Azadi (libertà). Un “consolato”: «Da quasi due decenni è il luogo da cui ripartire, è l’aria del nostro paese, rifugio dalla repressione», ci dicevano un anno fa.

E la battaglia per restare prosegue: il centro ha speso per la ristrutturazione dell’edificio che lo ospita 40mila euro, il doppio di quanto del «debito» con il Comune (poco più di 15mila euro). Nel 2006 la stessa giunta aveva dato il luogo in concessione. Destino condiviso da 800 associazioni romane su cui pesano le procedure previste dalla Corte dei Conti e le delibere 140/2015 e 19/2017 che mettono a bando gli immobili concessi a organizzazioni sociali e culturali.

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