La sentenza della Corte di Cassazione sul caso «Asso Ventotto», pubblicata il 1 febbraio, potrebbe avere riflessi sui processi in corso per i soccorsi operati dalle navi private, ma anche minare alcuni pilastri della politica governativa e delle norme emanate per regolamentare l’attività di soccorso (Sar) delle Ong. Punto fondamentale è sicuramente l’ulteriore e autorevole riconoscimento che la Libia non può essere considerata un luogo sicuro di sbarco (Place of safety o Pos). Ad esso consegue che consegnare i migranti soccorsi alle autorità libiche costituisce un atto di respingimento collettivo, assolutamente vietato dal diritto internazionale e nazionale.

Anche ulteriori principi stabiliti dalla Corte si potrebbero estendere, mutatis mutandis, alle navi che non battono bandiera italiana. Alcuni di questi, però, richiedono opportune precisazioni perché sono legati agli specifici motivi di ricorso. Innanzitutto non è esatto che il comandante abbia un obbligo imperativo di contattare il competente centro di soccorso (Rcc) prima di intraprendere un salvataggio. L’articolo 33 della Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare (Solas) stabilisce che egli deve informare del suo intervento in primis le persone in pericolo oppure il centro di soccorso. Quando possibile anche entrambi, ma non c’è un obbligo specifico. Come si evince da quanto detto dalla Corte con riferimento all’art. 358 c.p., anche la richiesta di assistenza a un centro di soccorso è rimessa alle discrezionali valutazioni tecniche del capitano, commisurate alla concreta situazione.

Per la successiva fase di sbarco delle persone è invece richiesto necessariamente l’intervento di un centro di soccorso, primariamente di quello responsabile per l’area, che è tenuto, eventualmente anche coordinandosi con gli altri vicini, a indicare un Pos e sollevare quanto prima possibile il comandante della nave soccorritrice dalle proprie responsabilità.

Anche altri adempimenti, come l’identificazione dei migranti, non costituiscono obblighi ai sensi delle norme internazionali Sar, ma semplici raccomandazioni. In effetti, la Corte sembra averli valutati tali solo per evidenziare che, se il comandante avesse operato (quale incaricato di pubblico servizio) secondo istruzioni delle autorità del proprio Stato di bandiera, sarebbe stato esente da responsabilità penali.

Per la Corte, in verità, tale scriminante sarebbe intervenuta anche nel caso in cui il capitano avesse seguito gli «ordini» del centro di soccorso libico.

In realtà, ai sensi della Convenzione delle Nazioni unite sul diritto del mare (Unclos) trattandosi di acque internazionali, seppur ricomprese nella zona di ricerca e soccorso libica, la nave straniera è sottoposta esclusivamente alla giurisdizione del proprio Stato di bandiera.

Quelli impartiti dal centro di soccorso di Tripoli non possono essere qualificati come «ordini» di un superiore gerarchico, bensì come mere istruzioni operative che, in quanto tali, devono essere seguite solo se non in contrasto con il proprio ordinamento. Tale interpretazione, del resto, appare conforme a quanto affermato nella stessa sentenza in tema di rispetto del principio di «non respingimento».

Non può infine sottacersi che il comandante, pur indubbiamente responsabile del proprio comportamento, appare un capro espiatorio per responsabilità che dovrebbero risalire, almeno moralmente, anche alla compagnia armatrice e alle autorità di bandiera che, come tali, avrebbero dovuto prestare la dovuta assistenza ai comandanti in mare, fornendo preventivamente le necessarie direttive sui comportamenti da adottare in una situazione oggettivamente complessa, anche per i suoi delicati risvolti politici.

*Ammiraglio in congedo della Guardia costiera

La Cassazione e la guardia libica

Secondo la sentenza numero 4557 della Quinta sezione della Cassazione. affidare migranti ai guardiacoste di Tripoli è un reato perché la Libia non rappresenta un porto sicuro. Dunque, questa condotta infrange il Codice della navigazione in tema di «abbandono in stato di pericolo di persone minori o incapaci, e di sbarco e abbandono arbitrario di persone». Questa decisione ha reso definitiva la condanna del comandante del rimorchiatore Asso 28 che il 30 luglio del 2018 soccorse 101 persone nel Mediterraneo centrale e li riportò in Libia consegnandoli alle autorità locali. La decisione che arriva dal Palazzaccio potrebbe avere riflessi importanti sui procedimenti giudiziari in corso, anche dal punto di vista amministrativo, tanto che le Ong annunciano una class action «contro il governo e il ministro dell’Interno e il memorandum Italia-Libia».