Politica

Consulta, la destra cerca il cappotto ma la partita sui giudici resta difficile

La votazione in Parlamento per la nomina del nuovo giudice della Corte Costituzionale - foto AnsaLa votazione in Parlamento per la nomina del nuovo giudice della Corte Costituzionale – foto Ansa

In parlamento Trattative frenetiche, ma il quorum è lontano. Due idee per Schlein: Pertici e Garofoli

Pubblicato circa un'ora faEdizione del 16 novembre 2024

Nel giro di poche settimane la Corte costituzionale perderà tre pezzi: il presidente Augusto Barbera, Franco Modugno e Giulio Prosperetti. La quarta casella, quella di Silvana Sciarra, è vacante dalla scadenza del suo incarico nel novembre dell’anno scorso e, da allora, per nove volte il parlamento si è riunito in seduta comune senza riuscire a trovare la quadra. Il nodo gira tutto intorno all’alto quorum necessario per eleggere un giudice costituzionale, due terzi per i primi due scrutini e tre quinti dal terzo in poi. Significa, in buona sostanza, che la maggioranza deve raggiungere un accordo almeno con una parte dell’opposizione, faccenda che negli ultimi tempi appare meno scontata che in passato, quando ancora la destra poteva contare sulla benevolenza di Italia Viva e di Azione e aspirava a fare l’en plein e occupare tutti i posti disponibili.

Di questo dettaglio si è accorta Elly Schlein, che fiuta il colpo grosso: non più la designazione di un solo giudice, ma forse addirittura di due. Il primo nome sulla lista della segretaria del Pd è quello di Andrea Pertici, professore all’università di Pisa, suo compagno tra i civatiani di Possibile durante l’esilio dalla casa madre in epoca renziana, quasi candidato alla Camera ai tempi di Leu, e ora con lei in direzione: un fedelissimo per nulla sgradito al Movimento 5 Stelle, che spesso e volentieri si è trovato concorde cone le sue prese di posizione, tipo quando nel 2022, proprio davanti alla Consulta, difese la procura di Firenze per la storiaccia delle intercettazioni di Renzi.

L’altro nome che si sta facendo spazio è quello di Roberto Garofoli, tecnico «di area», nel senso che è stato capo dell’ufficio legislativo alla Farnesina con Massimo D’Alema durante il secondo governo Prodi, capo dipartimento della funzione pubblica quando presidente del consiglio era Mario Monti, segretario generale di palazzo Chigi con Enrico Letta e poi capo di gabinetto di Piercarlo Padoan con Renzi e Gentiloni (facendosi notare per aver rinunciato al compenso aggiuntivo a quello di magistrato).
Meloni, dal canto suo, un nome segnato sull’agenda ce l’ha da tempo, quel Francesco Saverio Marini, professore a Tor Vergata, che ha inventato il premierato e sul quale il governo notoriamente punta molto.

Resta il problema di fondo: superare l’impasse del pallottoliere potrebbe non essere un’operazione rapida e il rischio è che la Consulta si ritrovi per diverso tempo a poter contare solo su undici giudici, il numero minimo perché le sue sedute siano valide. Non solo: a scomparire quasi del tutto sarebbe la componente eletta dal Parlamento, un vulnus non da poco per gli equilibri interni, soprattutto quando le decisioni finiscono ai voti. Eventualità che, in ogni caso, non si è verificata con la decisione sull’autonomia: la sentenza, infatti, è frutto di un lavoro collettivo dei giudici presenti, senza che ci sia stato poi bisogno di votare

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