Con tutte le sue risorse naturali (gas, petrolio, carbone, fertilizzanti, cereali, legname, oro, nickel, terre rare, ecc.), come mai il reddito pro-capite dei russi – pur tenendo conto della parità di potere d’acquisto – è inferiore a quello della Grecia, ricca solo di rocce e di turismo stagionale?

Come mai il prodotto interno lordo della Russia, potenza di 150 milioni di abitanti, non supera quello della piccola Corea del Sud? Questo mistero non è spiegabile solo con la fuga di capitali o con la crescente fuga di cervelli.

Forse un’altra spiegazione può venire dalla storia di Genova. Più che una vera Repubblica, Genova era una multinazionale ante litteram. Non possedeva domini in Italia né oltremare. Ai mercanti e ai banchieri liguri non importava altro che la sicurezza delle vie di transito (Corsica, Messina, i Dardanelli), in modo da risultare intermediari ineludibili di merci strategiche.

Per secoli – senza esercito, senza territori – i genovesi hanno fatto il bello e il cattivo tempo perfino nel Mar Nero, dove sfociava la Via del Grano da nord e la Via della Seta da est. Lo attestano tuttora i forti genovesi d’avvistamento lungo le coste del Mar Nero, la torre di Galata a Istanbul e le centinaia di palazzi e ville lussuose disseminate fra Genova e i dintorni.

Gli affari prosperarono anche dopo la caduta della Repubblica dogale (a riprova che per arricchirsi non occorreva uno Stato vero e proprio). L’Europa dell’Ottocento, in pieno boom industriale e demografico, aveva fame di grano, orzo, avena, segale, sorgo. Le chiatte cariche di cereali discendevano il maestoso Dnepr fino al porto franco di Odessa. Ma non erano i russi a guadagnarci, erano i greci e i genovesi, che facevano il prezzo garantendo il trasporto fino agli sbocchi d’arrivo nel Mediterraneo e oltre. A provarlo basta uno studio di microeconomia. Nel 1869 mio bisnonno, armatore genovese, sbarcò a Odessa, allora principale borsa per le quotazioni dei cereali. A comandare erano quattro famiglie, tra cui quella anglo-greco-veneta dei Cortazzi. Mio bisnonno sposò una di loro. Nell’archivio di casa scopro documenti dell’epoca (contratti, manifesti di carico, assicurazioni marittime, garanzie bancarie) in russo, inglese o italiano che dimostrano come quei commerci arricchirono la famiglia, non certo i mugik dell’entroterra.

In pratica quelle società famigliari assomigliavano alle odierne trading companies di materie prime, i cui nomi (Gunvor, Glencore, Trafigura, Vitol…) sono ignoti ai più: in genere non si quotano in borsa, eppure sono loro a far spesso oscillare le borse merci. Grazie alla pandemia del Covid hanno comprato a basso prezzo commodities di ogni tipo (cereali, idrocarburi, materiali ferrosi, fertilizzanti) che oggi, grazie alla guerra in Ucraina, rivendono a prezzi maggiorati. Russia e Ucraina assieme valgono un terzo del commercio mondiale di cereali e fertilizzanti, ma i prezzi non si fanno a Mosca e neppure a Kiev bensì a Ginevra, Londra, Singapore, Chicago. Perfino il naviglio russo, se vuole muoversi, deve assicurarsi a Londra.

Supponendo che Putin riuscisse a occupare l’Ucraina, l’economia russa si rafforzerebbe ben poco se non impara – al netto della questione morale – l’antica lezione dei genovesi. Ma è improbabile che Putin la impari, perché la sua voglia di espansione territoriale, sulle orme di Pietro il Grande, pare piuttosto seguire la fallace teoria economica dei fisiocratici francesi del Settecento: secondo loro era la terra – non l’industria né il commercio – a costituire la vera ricchezza di una nazione.

Quella teoria fece la fine che meritava, spazzata via dagli economisti britannici seguaci di Adam Smith e David Ricardo. Invece i regimi russi, dagli zar ad oggi, continuano a non capire. Perciò l’impero di Putin resterà sempre un gigante dai piedi d’argilla.