Politica

Una riforma o una mossa tattica?

Rai Il verso non cambia, il governo se la canta e se la suona

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 14 maggio 2015

Una premessa innanzitutto. Il tema della Rai e della sua riforma occupa da tempo la scena politica. Un tempo fin troppo ampio, almeno per il decisionismo di questo governo. Si era detto che la legge doveva essere fatta prima del rinnovo del mandato del Cda. Si era ipotizzato il decreto, come ormai si fa per quasi ogni provvedimento, ma poi quest’ipotesi era stata messa da parte, forse anche per qualche autorevole suggerimento. Il disegno di legge viaggia però al rallentatore. Prima le indecisioni a Palazzo Chigi, poi il passaggio al Quirinale infine l’approdo al Senato.

Ma quanto tempo ci vorrà per arrivare all’approvazione di un testo? Non mi pare che una legge di questa natura possa impiegare meno di tre-quattro mesi in prima lettura e lo stesso tempo alla Camera. Sarebbe già un record! Mi sembra difficile ormai il rispetto della scadenza massima della durata del Consiglio e dei suoi vertici prevista per il prossimo luglio. La legge non potrà essere approvata, secondo le più rosee previsioni, prima della fine dell’anno.
Lo scenario più realistico sembra dunque o quello di una proroga significativa dell’attuale Consiglio (prassi verificatasi spesso in passato, ma che non pare nelle corde del premier) o il rinnovo con le regole della Gasparri. Questa seconda ipotesi, più probabile, consentirebbe al governo di ottenere risultati simili a quelli ipotizzati e magari con qualche critica al parlamento per i suoi ritardi.

Il ddl sulla Rai si muove sia tecnicamente che politicamente all’interno del disegno della legge Gasparri (2004) e del Testo unico sulla radiotelevisione (2005), verso i quali si procede con la pura tecnica dell’emendamento. Tra l’altro questa tecnica ha provocato qualche incomprensione e qualche allarme, del tutto ingiustificato, come nel caso dei limiti alla pubblicità della Rai. Qualche giornalista alla ricerca di improbabili retroscena ha letto le disposizioni abrogate della legge Gasparri e ha pensato alla solita furbizia di qualcuno che voleva favorire la Rai. Ma la stessa materia abrogata era stata già trasferita all’art.38 del TU della radiotelevisione che continua ad essere in vigore. Se proprio si fosse voluto innovare in questo campo dei limiti alla pubblicità sarebbe stato molto più incisivo un intervento che finalmente ponesse fine alla sciagurata pratica degli sforamenti (rispetto ai limiti di affollamento previsti per legge). Sforamenti che un tempo erano praticati sistematicamente dalle emittenti tv (anche se per piccoli importi giornalieri) con un vantaggio che su base annua era decisamente rilevante (diciamo diversi milioni di euro?). Le “tecniche” di controllo dell’Agcom sono state sempre assai poco incisive e questo ha causato un danno obiettivo ai volumi di pubblicità dei mezzi non televisivi. Questo avrebbe potuto essere un intervento importante, ma sembra che non interessi a nessuno.

Veniamo ora al merito del provvedimento che interessa la Rai. Non mi pare proprio che si possa definire una riforma. Esso è caratterizzato più da una visione retrospettiva che da uno sguardo rivolto al futuro. L’unico accenno ad una ridefinizione dei principi, non fosse altro che per adeguarli ai tempi che cambiano, è contenuto in una delega dai contenuti estremamente generici.

Il concetto di indipendenza che costituisce uno dei cardini dei servizi pubblici europei è del tutto assente e infatti la governance è fondata su un accresciuto ruolo dei partiti e del governo. Nessuna rappresentanza, neppure simbolica è attribuita al pluralismo sociale (valore costituzionale). Si potevano inventare vari modi per rappresentare quel pluralismo, che costituisce l’ingrediente fondamentale dei servizi pubblici e invece si è tornati alla solita rappresentanza politica, tra l’altro senza nessuna mediazione, nessun filtro derivante dal possesso di requisiti adeguati di professionalità, senza nessun paletto neppure per le incompatibilità. Un bel salto all’indietro rispetto alle numerose proposte che giacciono in parlamento. La stessa idea di mantenere in vita, per di più indebolita, quella stessa commissione parlamentare che molti avevano detto di voler superare, ha un sapore decisamente anacronistico.

I punti critici del ddl sono numerosi e già abbondantemente individuati. In luogo della nuova missione della Rai e del prolungamento della durata della concessione (in scadenza nel maggio del 2016) viene mantenuta la prospettiva equivoca della privatizzazione e il carattere provvisorio dell’intero quadro normativo (v art.12 ter, aggiunto alla legge Gasparri). Il governo della Rai rimane saldamente nelle mani dell’esecutivo e della «sua» maggioranza. Nessun barlume di indipendenza (valore costituzionale). Il Cda ha un solido nucleo di almeno 4 persone gradite alla maggioranza di governo. Il presidente sarà espressione di questa stessa maggioranza e l’amministratore delegato dovrà essere concordato (su «proposta») con l’Assemblea (pure essa espressione del governo). Vedo che c’è grande curiosità (molti si lasciano suggestionare dai dettagli) intorno al tema delle revoche. Non mi pare che ci siano rilevanti novità rispetto al passato e al codice civile. Aspetti di comicità si rintracciano nell’accenno alle 3 mensilità di buonuscita dell’Ad!

Piuttosto l’Ad è potentissimo, un vero padrone dell’azienda. A quanto mi risulta una figura simile non esiste in nessuna parte d’Europa! Tutti i poteri sono nelle sue mani e nessuno oserà disturbare il manovratore. Anche quella timida autonomia concessa in precedenza ai direttori delle strutture editoriali, viene azzerata. Sarà ben difficile controllarlo da parte di un consiglio che non possiede le carte e a maggior ragione dal parlamento.
Le decisioni più significative di questo intervento legislativo, oltre a questa sulla governance di dubbia costituzionalità, sono rinviate a due deleghe legislative. Mi riferisco al finanziamento e alla riscrittura del TU della radiotelevisione. Una totale assenza di criteri e di quei concetti di indipendenza, di pluralismo, di certezza di risorse che si ritrovano nella giurisprudenza costituzionale.

La conclusione mi sembra una soltanto: visto che non si voleva il decreto, la legge verrà probabilmente abbandonata nei suoi contenuti più discussi. Il nuovo Cda verrà rinnovato con la Gasparri, che il metodo Monti ha già sufficientemente «addomesticato» alle esigenze dell’esecutivo, e per le altre decisioni fondamentali il governo manterrà la delega senza «principi e criteri direttivi». Cioè se la suonerà e se la canterà!

Se questo accadesse, avremmo un bel risultato. Non vi pare?

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