Alessandro De Nicola, su Repubblica di domenica scorsa, attacca la pseudo-riforma della Rai, di fatto facendo sue le stesse preoccupazioni sollevate su questo giornale.

I problemi cominciano, però, quando l’autore si chiede che cosa sia il servizio pubblico e se sia necessaria la proprietà pubblica per svolgerlo. Ci fa infatti sapere che per lui non sono certo “servizio pubblico’ l’Eredità o la Domenica Sportiva, mentre, forse, potrebbero esserlo ( ma «un libertario puro non sarebbe d’accordo», sottolinea), Rai Storia, Rai Scuola, Rai 5, Rai News e Isoradio. Per finanziare queste reti, aggiunge, basterebbero poche decine di milioni di euro, così risparmieremmo circa 3 miliardi di canone. Ma si potrebbe fare di più: «Privatizzare tutto, abolire il canone e dare in appalto ai privati lo svolgimento del famoso servizio pubblico, i partiti sarebbero fuori, le professionalità potrebbero esprimersi al meglio e ci sarebbe più concorrenza».

Il ragionamento ci sembra viziato nelle premesse.

Il servizio pubblico, che esiste con proprietà pubblica in tutte le democrazie occidentali, in queste si sostanzia di film, telefilm, serie tv, telegiornali, eventi sportivi, documentari, intrattenimento, magazine (e anche qualche talk show politico), come si può constatare sui siti di BBC, France 2, etc… Se il “servizio pubblico” (e qui rubiamo le parole a Bourdon), ha un’ambizione culturale e politica, quella di togliere dalla minorità culturale, emancipandole, le classi più deboli, e quella di rendere queste ultime partecipi del gioco democratico informandole, tali obiettivi si realizzano attraverso programmi in cui informazione, cultura e intrattenimento stanno separati o si mescolano secondo una ricetta di qualità e intelligenza? Ridurre, come fa De Nicola, i programmi di “servizio pubblico” a Rai Scuola, Rai Storia o Isoradio significa avere un’idea anacronistica ed elitaria del video, che non fa i conti con la società e la cultura di massa, e che di fatto renderebbe marginale e irrilevante qualsiasi “servizio pubblico” siffatto (come la PBS americana).

Sulla privatizzazione della Rai, invece, il guaio è che se ne parli ancora una volta scotomizzando un elemento centrale del contesto: Mediaset e le sue reti, tre generaliste, altre otto digitali free più una ventina pay. In tutto fanno una trentina, che insieme alla quindicina della Rai, vanificano l’idea stessa di mercato.

Puntare lo sguardo solo sulla Rai senza tenere conto dell’intero sistema è un difetto di analisi in cui cadono in molti, anche autorevoli, quando si cimentano con la questione televisiva. De Nicola, per ultimo, pensa di sollecitare concorrenza e professionalità privatizzando completamente la Rai e appaltando il “servizio pubblico” (come lo intende, l’abbiamo visto) ai privati.

E’ una proposta completamente fuorviante, soprattutto guardandola dal punto di vista liberale. La questione, quella di cui non si parla più nemmeno a sinistra, è la natura fortemente oligopolistica del mercato nazionale delle televisioni.

Anzi, la presenza oramai più che trentennale di un duopolio che nessun governo ha mai messo in discussione, duopolio di cui paradossalmente proprio quegli economisti che più di altri dovrebbero avere a cuore la libertà del mercato, dimenticano di occuparsi.

Un assetto che nemmeno l’avvento del digitale ha incrinato, come gli studiosi, con numeri e percentuali, ci dicono. Qualche anno fa su “Problemi dell’informazione” Marco Mele parlò di “mitridatizzazione” dell’emergenza televisiva italiana: c’è da pensare che in questi decenni il sottile veleno del duopolio somministrato al paese ogni giorno abbia finito col silenziare e rendere inoffensivi gli anticorpi della pubblica opinione.

Privatizzare. E come?

Tutte le reti Rai in mano ad un privato, grazie anche alla legge Gasparri? Si riproporrebbe, mutatis mutandis, l’oligopolio-duopolio che conosciamo. Oppure diamo una-due reti Rai a testa ai privati che vogliano comprarle? Uno scenario ancora peggiore, con il gigante Mediaset a farla da padrone mangiandosi i concorrenti con le sue trenta reti, e la disponibilità della micidiale macchina da guerra della raccolta pubblicitaria.

Punto cruciale questo, e altra distorsione monopolistica del mercato dell’etere, di cui purtroppo i nostri “liberali” ( verrebbe da dire: alle vongole) sembrano non accorgersi affatto quando parlano di tv.

Da parte nostra pensiamo che le soluzioni vadano cercate nell’aprire, sul serio, il mercato alla concorrenza. Soluzioni che salvino la Rai dai partiti, anche quelli di governo. E la tv tutta da un sistema ipertrofico e oligopolistico che ne imprigiona le risorse e ne frena la crescita produttiva (vedi il bel libro di Balassone e Guglielmi di due anni fa).

Una dieta dimagrante per Rai e Mediaset che faccia respirare il mercato, a partire proprio dalle reti generaliste che ancora, alla faccia dell’illusione-bufala digitale, la fanno da padrone nell’etere con più della metà degli ascolti del sistema.

Una Fondazione per la tv pubblica, sganciata dai partiti e dalla politica, secondo le linee del compianto disegno Gentiloni passato alla Camera nel secondo governo Prodi.

E infine limiti seri alla raccolta pubblicitaria nel sistema informativo. Di questo parliamo, cari amici, liberali immaginari, quando parliamo di tv in Italia.

PS: a proposito di “servizio pubblico” e di professionalità è stata strepitosa la puntata di “Presa diretta” sui vaccini domenica sera su Raitre.