Si è concluso il primo tempo, con l’approvazione a maggioranza del testo del governo da parte dell’aula del senato, della triste commedia della (contro)riforma della Rai. Il secondo atto avrà luogo a settembre alla camera dei deputati.

Tuttavia, come in un giallo surrealista, il finale sarà noto ai lettori già la prossima settimana, quando – martedì – si riunirà la commissione parlamentare di vigilanza per eleggere sette dei nove componenti del consiglio di amministrazione del servizio pubblico, cui si aggiungeranno immantinente i due del ministero dell’Economia, tra i quali il presidente dell’azienda in pectore.

E poi, l’indicazione del direttore generale che, a legge approvata o magari attraverso un piccolo decreto (ci sarebbe da stupirsi?), dismetterà la grisaglia per indossare il maglioncino di ordinanza «marchionnesca», simbolo dell’amministratore delegato «che non deve chiedere niente».

Il resto, forse, verrà. Tanto è chiaro che il disegno di legge varato in prima lettura è un puro simulacro, il cui unico punto di rilievo sta proprio nella figura del potente ad, in fieri a prescindere.

Il testo, persino peggiorato dal passaggio in commissione con gentili aperture consociative, assegna senza meriti la medaglia a Gasparri. Il nuovo vertice nasce con la legge dell’ex ministro e l’ipotetica novella in corso d’opera ne discende come un bignamino.

Delle belle proposte di Sel e Civati sulla formazione di un consiglio di garanzia espresso dalla società civile, nonché della inappuntabile richiesta 5Stelle di conoscere con anticipo le competenze dei vertici nulla rimane. Il rullo compressore ha travolto gli emendamenti, anche quelli timidamente migliorativi. Salvo la felice battaglia – passata tra lo stupore di diversi commentatori- con cui la «sinistra dem» ha ottenuto la cancellazione della delega in bianco al governo sulla ridefinizione del canone.

Quest’ultimo – secondo alcuni – andrebbe abolito. Secondo altri è la pubblicità che va estirpata, per dare luogo a tanti maestri Manzi duri e puri. Magari in bianco e nero. Del resto, il «duopolio» riguarda ormai Sky e Mediaset. Con Netflix in dirittura.

La Rai in serie B, se non più in basso. Questo è il sottotesto del testo. Il servizio pubblico è la vittima sacrificale di equilibri che, se ci sono, al momento sembrano un colpo ai fianchi della stessa identità collettiva.
Viene il sospetto che l’intera trama verrà illuminata – e non al meglio – al momento del rinnovo della convenzione con lo stato. A maggio del 2016, insomma domani.

Una Rai indebolita e frastornata arriva all’appuntamento cruciale senza certezze e priva di una visione.

Infatti, il tema reale che sta investendo gli antichi broadcaster pubblici riguarda la riscoperta delle motivazioni in grado di infondere forza progettuale alla sfera pubblica nell’era digitale: garanzia per tutti di accedere gratuitamente alle svariate piattaforme tecnologiche, tutela del pluralismo, produzione di film e audiovisivi italiani ed europei in accordo con Cinecittà , navigazione libera e neutrale nella rete, free software e condivisione, apertura ai giovani e alla sperimentazione creativa. Nella migliore delle ipotesi diventerà legge un mediocre articolato sulla divisione dei poteri, con l’aggravante della lesione costituzionale avvenuta mediante lo spostamento secco del baricentro dal parlamento al governo.

Tralasciamo, per non reiterare il disagio delle e nelle coscienze, la beffa del rinnovo del consiglio con la commissione parlamentare, dopo la furia iconoclasta del «fuori i partiti».

Brutta, orribile storia. C’è da essere solidali davvero con chi opera nel servizio pubblico con lo spirito giusto. Per citare qualche classico, l’antica lottizzazione fu forse una tragedia (ma non solo), quella che ci aspetta rischia di essere una farsa. Amara e offensiva.

Non ci resta che piangere? Non ci si può arrendere. Una linea e una pratica alternativa vanno pazientemente costruite. Già in questi giorni. Non finisce qui.