Economia

«Una presa in giro, servono servizi e conciliare i tempi»

«Una presa in giro, servono servizi e conciliare i tempi»Donne che manifestano per un welfare migliore

Intervista a Annamaria Simonazzi La docente della Sapienza: da noi il welfare è solo casalingo e penalizza le donne.

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 29 novembre 2017

«Il bonus bebè è prendere in giro la gente, per rilanciare la natalità in Italia servono politiche di conciliazione dei tempi di lavoro e un welfare basato sui servizi, non bonus per prendersi cura degli anziani in casa». La professoressa Annamaria Simonazzi, docente all’università La Sapienza di Roma in Economia politica e Storia dell’analisi economica, è una delle massime esperte in Italia di lavoro al femminile, tema da lei spesso trattato sulla rivista on-line inGenere.it.

Annamaria Simonazzi
Annamaria Simonazzi

 

Professoressa Simonazzi, l’Istat certifica che nel 2016 si conferma la tendenza alla diminuzione della fecondità: il numero medio di figli per donna in Italia scende a 1,34 dall’1,46 del 2010.

L’Italia ha un record europeo per la bassa natalità e al contempo è fra gli ultimi nel tasso di occupazione femminile. Non c’è un trade off, un’alternativa fra i due dati tanto che in Svezia lavorano l’80 per cento delle donne e quel paese ha un tasso di fecondità fra i più alti in Europa. Il problema principale del nostro paese è la conciliazione dei tempi di vita per le donne che lavorano. Non si tratta tanto di avere pochi asili ma di servizi e trasporti che rendano possibile alle donne conciliare la propria carriera con la famiglia.

Quale tipo di welfare servirebbe per invertire questa tendenza?

Da noi il welfare è essenzialmente basato sulla famiglia, un welfare domiciliare, fatto in casa. Si sta discutendo al Senato di introdurre un fondo per aiutare le famiglie che accudiscono anziani non autosufficienti a casa. Forse non è questa la direzione da prendere, bisogna garantire l’assistenza domiciliare, non continuare su questo welfare da poveri tipico dei paesi mediterranei.

Nella legge di bilancio invece i centristi hanno imposto il ritorno del bonus bebè: 40 euro al mese per il primo anno di vita del primo figlio.

Mi sembra un prendere in giro la gente. Si tratta di una cifra irrisoria anche perché chiunque ha dei figli sa benissimo che costano molto di più negli anni a venire, con la precarietà spesso fin oltre i 20 anni.

La situazione italiana è stata sempre così negativa?

Prima della crisi del 2008 a livello locale si stava portando avanti un tentativo di riforma complessiva dell’assistenza con un welfare più strutturato e basato sui servizi. Bisognerebbe ripartire da lì invece che dare pochi soldi alle famiglie. Anche perché poi il problema ricade nuovamente sulle donne: sono loro che spesso devono lasciare il lavoro per assistere e curare a casa i propri vecchi con effetti molto negativi sulle loro future e lontanissime pensioni, visto che il lavoro di cura non è riconosciuto a livello previdenziale.

I più colpiti ora però sono i giovani.

L’occupazione giovanile è prettamente precaria e questa condizione si riverbera sulle scelte di vita. Pochissime giovani donne possono permettersi di fare figli: se perdono l’occasione di avere un lavoro per loro è finita e così si rimanda l’età del primo figlio. In questo modo ad un età avanzata rimanere incinte è più difficile e così assistiamo al boom della fecondazione artificiale.

Lei già prima ha accennato al fatto che gli asili in questo quadro non siano così decisivi. Ci spiega perché?

Innanzitutto perché ormai anche quelli comunali costano troppo e non tutti se li possono permettere. Inoltre è ancora una volta decisiva la questione dei tempi, come dimostra il caso della lavoratrice dell’Ikea, e quindi degli orari di apertura: se il servizio è garantito solo fino alle 14 è chiaro che non permettono alcuna conciliazione lavorativa per le madri. E tutto ricadrà sui nonni, se ci sono. Un welfare di questo tipo infatti è ancora più penalizzante per le famiglie di migranti che i nonni non li hanno. L’alternativa è dunque che le madri non lavorino per prendersi cura dei figli, limitando fortemente l’integrazione delle donne immigrate nella nostra società.

Da dove si dovrebbe cominciare per cambiare questo desolante quadro?

In primo luogo evitando di continuare a tagliare risorse ai Comuni e agli enti locali che, a parte qualche scelta voluta, non riescono a finanziare nemmeno quel poco di welfare che c’era in precedenza. Serve una visione di lungo respiro che rilanci e modifichi i servizi in Italia basandoli non sui bonus alle famiglie. In più ci sono politiche di conciliazione che non costano. Fissare orari flessibili che permettano ai genitori – non solo alle madri – di prendersi cura dei figli, non ha un costo. E in più aumenterebbe la produttività per le imprese: lavoratori che possono conciliare i tempi di vita andranno al lavoro più contenti.

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