Come reagireste se vi dicessero che il governo intende introdurre una nuova imposta tra i mille e duemila euro sul vostro reddito da lavoro? Probabilmente pensereste che l’esecutivo non avrebbe l’ardire di approvare una misura così draconiana.

Ma se vi dicessimo che questa imposta “occulta” l’avete già pagata lo scorso anno e che quest’anno ne state pagando un’altra d’importo solo di poco inferiore? Non siamo impazziti, semplicemente abbiamo fatto qualche calcolo.

Prendiamo l’esempio di un insegnante di scuola superiore che aveva il contratto 2019-21 scaduto e rinnovato solo nel 2022. Distribuendo su 4 anni l’una tantum degli arretrati ha incassato nel 2022 circa 19.900 euro netti (senza considerare anzianità e attività progettuali), mentre nel 2021 ne aveva guadagnati 19.600. In virtù della crescita dei prezzi (8,7%), l’aumento del salario nominale si trasforma in una riduzione di 1379 euro del salario reale.

Nel 2023 il conto aumenta ancora: per effetto del taglio del cuneo fiscale il nostro insegnante riceverà circa 300-400 euro netti in più a fine anno, peccato che con una inflazione annua al 6% (stima prudenziale, abbiamo già acquisito il 5,7%) il salario reale brucerà l’effetto cuneo riducendosi di ulteriori 800-900 euro in termini di potere d’acquisto.

Un tale calcolo vale anche per un operaio metalmeccanico di terzo livello che nel 2021 ha guadagnato 14.974 netti calcolando i minimi retributivi, ma che con la contrattazione aziendale guadagna mediamente cifre simili a quelle dell’insegnante. Va considerato inoltre che l’operaio non ha avuto neanche un rinnovo contrattuale, per quanto insufficiente, come l’insegnante.

Il Governo sta stanziando alcuni miliardi per il rinnovo contrattuale degli statali 2022-24, ma gli aumenti saranno lontani dal recuperare gli oltre 2000 euro netti persi. Nei rinnovi contrattuali privati non ci sono ragioni per essere più ottimisti.

Gli aumenti nominali dei salari pubblici e privati, poi, pur non recuperando le perdite dell’inflazione, comporteranno progressivamente un aumento dell’Irpef perché molti redditi tenderanno a superare lo scaglione a cui appartenevano solo due anni fa. Un fenomeno conosciuto come Fiscal Drag e su cui il governo per il momento non ha intenzione d’intervenire.

Ma se abbiamo pagato e stiamo pagando questa tassa occulta chi ci sta guadagnando?

Per quanto riguarda il pubblico impiego la risposta è lo Stato. Le entrate seguono in larga parte l’inflazione, le uscite per gli stipendi no. L’inflazione contribuisce a contenere il deficit e a ridurre parzialmente il rapporto debito/pil.

Per quanto riguarda il privato a guadagnarci sono gli imprenditori. Se una parte non maggioritaria dell’inflazione è spiegabile con l’aumento dei costi energetici e delle materie prime (profitti che prendono sovente strade internazionali), un’altra parte contribuisce a gonfiare i profitti nostrani. Il valore aggiunto delle società non finanziarie è aumentato del 9,1% nel solo 2022.

La Finanziaria non prevede misure redistributive, ma aumento di fatto dell’età pensionabile. Basterebbe indicizzare le aliquote Irpef per evitare il fenomeno del fiscal drag, agganciare la crescita dei salari all’inflazione, tassare maggiormente i profitti per avanzare politiche redistributive. Ma viviamo uno strano momento. Dove la sbornia anti-tasse, conseguente a quella liberista, ha raggiunto anche le fasce sociali più povere, dove il solo accennare a nuove tasse magari dentro una più equa riforma del fisco è considerato blasfemo.

Senso comune è diventato che sarebbe cosa buona e giusta alleggerire il carico fiscale a tutti e non ci si rende conto della portata della tassa occulta rappresentata dal ritorno dell’inflazione. A questo punto la richiesta di aumento dei salari del 40% del sindacato dell’auto negli Usa non appare così lunare. Alla Ford hanno già siglato un aumento del 25%.

In Italia sarebbe ora di unire il mondo del lavoro su questo tema esplosivo.