Il rito si ripete. Servono lavoratori ma non si trovano, la colpa è del reddito di cittadinanza che disincentiva il lavoro e genera poltronismo e così via… . Naturalmente le occasioni sono sempre le stesse: i momenti in cui per fattori stagionali (turismo, raccolte agricole…) la domanda di lavori miseri, spezzettati e brevi, ma con orari lunghi, cresce.

E così gli stessi che avevano chiesto lo sblocco dei licenziamenti come strumento indispensabile per rilanciare l’occupazione, visto l’ennesimo fallimento, ritornano al vecchio armamentario: abolire il reddito o limitarlo alle estreme povertà oppure, infine, se proprio non si riesce ad ottenere di più, ridurre il peso del fisco, quindi scaricare i costi ancora sullo Stato riducendo le risorse destinate alla previdenza. Domani, si sa, è un altro giorno.

Ma che tristezza questa classe imprenditoriale! Siamo l’unico paese ad avere registrato, nel lungo periodo, addirittura una diminuzione del potere d’acquisto ed ancora insistono a ricorrere all’armamentario della rivincita: quando dopo la stagione
dei diritti del lavoro e sociali, i ricchi sono passati al contrattacco ed hanno vinto sui poveri.

Ma adesso potrebbe anche bastare, potrebbero godersi la vittoria e fermare questa orgia infinita di dominio e di potere.  Adesso ci sono addirittura lavoratori che si rifiutano, che lasciano il lavoro, che se ne vanno fuori, che, pensate un po’, vogliono loro scegliere il lavoro, le condizioni, e qualche volta anche l’imprenditore per cui lavorare. Insomma non c’è più morale contessa!

In realtà confesso che stento a credere che la classe imprenditoriale italiana sia solo questa rappresentata da industrialotti del nulla. So che ci sono imprese coraggiose e innovative e che anche in questo campo, come nella politica, esiste un serio problema di rappresentanza, di scarto qualitativo tra rappresentanti e rappresentati. E che, anche qui, esiste un problema di ridefinizione di questo mondo.

Cosa è oggi la classe imprenditoriale di fronte alla mutazione straordinaria della produzione, alla finanziarizzazione, alla smaterializzazione, alla frammentazione e alla globalizzazione?  Di fronte alle nuove forme di impegno professionale – imprenditoriale, alla commistione tra lavoro dipendente e lavoro autonomo ed alle tante forme di imprenditorialità di sèestessi? E al nuovo mondo del lavoro collegato ad impegno sociale, volontariato, associativo? Ed alle forme nuove in sedi collettive, in smart working?

La mia non è una condanna sommaria, ma quasi un appello-speranza, parallelo, se posso permettermelo, a quello che cerco di esprimere nella politica e per la sinistra: non sarebbe giunto il momento anche nel campo delle imprese, degli economisti e studiosi, degli istituti e dei ricercatori di aprire una fase di radicale autoriflessione sulla classe dirigente di questo paese? Sulla sua composizione e visione del mondo e del futuro anche dell’economia e della produzione? Possibile che, anche qui, le cose più belle e lungimiranti, più profonde e più visionarie, le si debba cercare solo e sempre nelle parole e negli atti di Papa Francesco?

Ma a questo punto nascono altre domande: è giusto che in questa politica ridotta a squallida cronaca, alla scarsa qualità del dibattito sulla e nella classe imprenditoriale, si risponda, da sinistra, mettendoci in difesa? Del reddito di cittadinanza, dei diritti e del salario minimo, della redistribuzione del lavoro…..?

Visto che non esiste più nemmeno un partito del lavoro, non esiste anche per noi l’esigenza di ricostruire una mappa dei lavori, delle componenti oggettive, soggettive, generazionali, sessuali, territoriali che li attraversano? Anche qui il papa qualcosa ci ha detto ci dice. Ma noi?