In Colorado, nel Rocky Mountain Arsenal, ex stabilimento per la produzione di micidiali armi chimiche, a metà degli anni Ottanta si scoprì che quel territorio avvelenato era stato scelto per la nidificazione dalle aquile di mare testabianca, all’epoca a rischio di estinzione. Anche l’isola di Vieques (Porto Rico) oggi è un parco tropicale pullulante di meraviglie, rifugio di caleidoscopiche specie: eppure in quel mare «sostano» spaventose quantità di ordigni inesplosi, napalm, uranio impoverito, essendo stato un poligono per i bombardamenti militari dagli anni ’40 fino al 2003. Nonostante ciò, il mondo selvatico si è risvegliato e ha ripreso i suoi spazi, sfoggiando un felice rigoglio.
È quel che succede in maniera spontanea anche in molte zone di deforestazione, tornate a essere non più «ambienti domestici». E pensare che un tempo, addirittura la iconica capanna della filosofia selvaggia di Thoreau fu costruita in una radura disboscata da poco – lui stesso, d’altronde, come agrimensore, lavorò alla lottizzazione di terreni da preparare per il raccolto.
Cal Flyn, autrice del libro Isole dell’abbandono. Vita nel paesaggio post-umano (Blu Atlantide, traduzione di Ilaria Oddenino, pp. 368, euro 19,50) sarà ospite al Salone di Torino domenica 22 (ore 14, con Danilo Zagaria). Scozzese, non può che dedicare l’avvio iniziatico del suo racconto all’estrema Inchkeith, a sei chilometri e mezzo da Edimburgo. Avamposto di quarantene, appestati, prigioni e profeti, isola-fortezza durante varie guerre, quando fu dimenticata e lasciata in pace subì una metamorfosi, trasformandosi nel nido prediletto da tantissime specie di uccelli. Prima, nei suoi cieli, volteggiava solo l’edredone. Fra i relitti e le rovine, la vita è in tumulto e prospera.

Da dove proviene la sua passione per i luoghi abbandonati?
Credo che la maggior parte delle persone subisca il loro fascino misterioso. Le case lasciate per brevi periodi non ci mettono a disagio, le rovine dei monumenti ricoperte di vegetazione danno un senso di sicurezza, ma gli edifici rimasti deserti per decenni emanano un’atmosfera perturbante. Sono «regni» di permanenza umana, ma non del tutto. Un’incertezza che ci inquieta e attrae. A me, interessa il rapporto con la natura. I luoghi in disuso incarnano la porosità tra mondo umano e non umano. Si possono esplorare le questioni scientifiche e culturali che sollevano, ma anche attingere a una risposta emotiva più profonda. Commuoversi. Stimolano, poi, una pulsione voyeuristica: il desiderio di sbirciare fra i dettagli delle vite altrui.

Cosa succede in quei siti quando l’essere umano «rinuncia» al controllo?
Altre specie espandono i loro territori. Si apre una breccia. Un armadio non pulito attirerà rapidamente i parassiti. Un prato non falciato farà germogliare arbusti ed erbacce. Un tetto non aggiustato cederà e sarà un rifugio per gufi o pipistrelli. I processi attraverso i quali il mondo naturale si risveglia, dopo le incursioni umane, sono esattamente gli stessi di qualsiasi altro cambiamento ambientale: è sorprendente. Un cumulo di detriti prodotto dall’estrazione mineraria è abbastanza simile, dal punto di vista ecologico, a una eruzione vulcanica. Sono entrambe grandi aree di roccia, ghiaia o cenere, territori «nuovi». E così piante e insetti (e altri animali) torneranno. Più grande è l’isola abbandonata, più specie ci vivranno. Vaste zone di esclusione – come quella di Chernobyl, o dell’isola di Montserrat nei Caraibi – si rigenerano in riserve naturali, pur se con rischi per le creature che le abiteranno.

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Possono raccontarci qualcosa anche sul nostro futuro?
Nel libro scrivo che i siti abbandonati sono «esperimenti proibiti»: sarebbe immorale creare in modo intenzionale quelle situazioni, ma dal momento che esistono si può imparare molto. Chernobyl è stata al centro dell’interesse dei radioecologi che studiavano come vegetazione e fauna affrontassero un ambiente contaminato da radiazioni ionizzanti. La radura nei boschi vicino a Verdun, dove nessun albero può crescere a causa dell’arsenico nel terreno (e altri metalli pesanti) è stata studiata per capire quali piante potessero tollerarlo. Luoghi simili sono stati di grande interesse per i ricercatori nel settore della fitodepurazione – un’area scientifica che esamina come alcune specie di flora (i girasoli, ad esempio) possano essere utilizzate per disintossicare i campi inquinati. Nel capitolo sui terreni agricoli abbandonati in Estonia, ho rilevato che lì, come in gran parte dell’ex Unione Sovietica, enormi appezzamenti di campi agricoli collettivi sono stati lasciati a riposo, tornando alla silvicoltura. Un fenomeno presente anche in Italia: l’urbanizzazione rende i terreni agricoli «marginali». Grandi quantità di carbonio vengono risucchiate dal suolo, dall’erba, dalle piante e dagli alberi. In un terzo di tutti i paesi, la copertura forestale è in aumento e in un altro terzo ha smesso di ridursi, è più o meno stabile: ciò è dovuto all’abbandono della terra da parte dell’essere umano. Di certo, non possiamo continuare a emettere carbonio e aspettarci di farla franca. Tuttavia siamo molto fortunati ad avere queste foreste che si ricreano da sole: sono loro a rallentare l’impatto del cambiamento climatico. Dobbiamo proteggerle, pur se non somigliano agli antichi boschi «incontaminati» delle fiabe.

I luoghi considerati nel libro, infatti, non rappresentano isole inalterate. Al contrario, segnalano tracce di esistenze, resistenze, esili. Potrebbe spiegare meglio questa doppia identità?
Quando scaviamo nelle storie delle zone più remote del pianeta, scopriamo che conservano «ricordi» dei precedenti insediamenti. Gli esploratori europei dell’Amazzonia nel XVI secolo riferirono che il fiume era un’arteria trafficatissima. Gaspar de Carvajal descrisse una città che si estendeva per 18 miglia lungo le sue sponde (Manhattan, ad esempio, è lunga 13,4 miglia) e «autostrade reali», fortificazioni e lussuose ville. Chi venne dopo di lui, lo credette un amante di leggende, ma studi recenti su quella che ora è una foresta pluviale impenetrabile suggeriscono che proprio lì, un tempo, c’erano regioni densamente popolate, poi abbandonate e bonificate dalla natura, probabilmente durante pandemie di vaiolo, morbillo e peste. Le foreste hanno riguadagnato circa 50 milioni di ettari di terreno quando il 90% della popolazione delle Americhe fu cancellata da malattie tra il 1492 e il 1650. Dare valore solo alla «purezza», è profondamente insensato.

Quale fra i luoghi visitati è stato il più impressionante?
Pripyat, nella zona di esclusione di Chernobyl. Ma anche Plymouth, l’ex capitale di Montserrat, mi ha colpita profondamente. In entrambi i casi, l’entità della distruzione è sbalorditiva. Capivo ciò che stavo guardando solo mettendolo in relazione con i film catastrofici e le loro narrazioni post-apocalittiche. Faticavo a convincermi che non fossero solo set cinematografici. Da una terrazza vicino a una piscina, inondata di cenere e ricoperta di felci, guardavo i resti di Plymouth, sempre ingoiati dalla cenere. All’interno della zona, eravamo in costante contatto con l’osservatorio del vulcano, avevamo una scorta di polizia e dovevamo lasciare l’auto rivolta in direzione dell’uscita, nel caso si verificasse un picco di attività sismica.
Cosa si può dire della tenacia dimostrata da flora e fauna nel colonizzare luoghi inaccessibili (spesso, dopo i nostri disastri)?
È un processo stupefacente. In modo casuale, semi e piante si diffondono con il vento, gli escrementi degli uccelli, trasportati dalle onde degli oceani. Spuntano ovunque. La stessa cosa accade con gli insetti. Piccoli ragni vengono trascinati nell’atmosfera e piovono altrove. Solo una minima parte di questi «pionieri» potrà sopravvivere, ma è un processo costante e nel tempo si formeranno sempre più specie. Quindi, i siti abbandonati sono molto ricchi di biodiversità e presentano una natura piuttosto selvaggia. Le piante subartiche potrebbero coesistere felicemente con specie mediterranee. Almeno per un po’, finché alcune di loro saranno espulse. Inoltre, i brownfield, luoghi dismessi, ex industriali, sono utilissimi agli invertebrati. Nel Regno Unito esiste una classificazione chiamata «habitat a mosaico aperto» relativa proprio a quei posti. Frammenti di vecchi muri sfondati, asfalto crepato, pozze stagnanti, cespugli spinosi, piccole radure di alberi sono habitat perfetti per gli insetti che necessitano di diverse condizioni durante il loro ciclo di vita. Il valore di questi luoghi – brutti e trasandati – è oggi riconosciuto dagli ecologisti che tentano di proteggerli dalla riqualificazione perché sono la dimora di ragni o coleotteri rari.

Si può evitare di soccombere al fascino estetico della rovina?
Sì, apprezzando la loro bellezza, senza dimenticarne il lato oscuro. Quei luoghi sono stati spesso abbandonati per una buona ragione: inquinamento, degrado economico, collasso industriale o malattie… Pur se ammiriamo il loro fascino – e persino il nuovo valore ecologico – nulla ci vieta di provare compassione per gli ex abitanti, le comunità e le culture perdute che un tempo vi dimoravano. Detroit per un periodo divenne famosa grazie a quel fenomeno definito «il porno delle rovine», cioè immagini fortemente estetizzate di edifici in declino. La rovina era feticizzata. Alla fine, quel tipo di turismo ha stancato gli abitanti. William James scrisse che si trattava di «un passatempo spietato». Meglio sempre entrare in contatto con le storie umane nel cuore di questi luoghi.