Dopo cinquant’anni, il manifesto resta ancora fuori dagli schemi dominanti negli altri giornali, che pure hanno subito tutti delle mutazioni. Negli anni miei di giovinezza, il manifesto ha avuto un’importanza fondamentale. Era il giornale con cui mi confrontavo, che è la cosa a cui i giornali dovrebbero servire: a organizzare i pensieri, a metterli in crisi e magari a riformularli.

Nei giornali, che non sono oggetti di intrattenimento, ho sempre cercato delle «linee guida». E il manifesto ha sempre portato un punto di vista diverso rispetto agli altri, è sempre stato «fuori dal coro».

È stato importante per me, e continua ad esserlo: soprattutto in un momento come questo di trasformazione, momento terribile che stiamo vivendo, i giornali ne usciranno ulteriormente cambiati. Così come ne usciranno cambiati gli artisti, e i luoghi dell’arte, che sarebbero i luoghi della condivisione, e della comunità e del dibattito.

Per me è importante si continui a lavorare su questo, e che il manifesto continui a portare riflessioni su cui un artista, ma anche qualsiasi cittadino, possa fare riflessioni da poter indirizzare verso un ambito meno accomodante.

Il manifesto è un contenitore di pensiero in cui il lettore viene chiamato in causa, come per altro io cerco spesso di fare con i miei spettacoli. Dove il lettore, come lo spettatore, è attivo: si arrabbia, si indigna, è in disaccordo. Può anche subire un punto di vista diverso dal consueto, e grazie a questo farsi un’opinione diversa rispetto a prima. Io stessa sono interessata come lettrice a mettermi in questo processo.

Soprattutto in campo culturale, perché l’informazione strettamente politica oggi è un susseguirsi di gesti esibizionistici che mette solo a disagio. Leggendo la cultura che mi spiega molte cose, ho di fatto anche una lettura della politica.

Con delle indicazioni che io da sola non riuscirei a fare. Apprezzo che dietro alle cose che leggo ci sia un pensiero, anzi una vera e propria etica.

Mi ricordo che uno slogan del manifesto qualche anno fa era orgoglioso di essere sempre «dalla parte del torto». Riconosco che è anche l’ambito del mio teatro: vale per l’informazione come per la cultura. Che non deve e non può essere accondiscendente né celebrativa: essere «dalla parte del torto», anche in scena, vuol dire cercare qualcosa che si allontani dal buonsenso comune, per cercare di scardinare e demolire le certezze dominanti, per arrivare a un pensiero nuovo.

Sul giornale come in palcoscenico, non si può sempre sentirsi in pace col mondo, bisogna sentirsi «in guerra» per raggiungere un pensiero nuovo, per superare il presente. Nel mio teatro, esprimo un disaccordo, o una diversità, culturale proprio per cercare un’armonia nuova.

Non vuol dire essere «contro» per partito preso, ma per cercare un’altra verità, che è probabilmente una verità sconosciuta, la formulazione di un pensiero nuovo. Per un giornale come per una creazione culturale, è importante il principio dell’autorialità, che vuol dire creatività e soprattutto indipendenza, da qualsiasi potere.

Essere «dalla parte del torto», vuol dire essere «autore».

Ho tenuto sempre il manifesto nelle mie scorribande di artista, ed è sempre stato con me, nel bene e nel male. Io ho avuto anche delle batoste dal giornale, qualche volta sono stata stroncata con mia grande tristezza, colpita al cuore perché questo giornale mi ha accompagnato nella mia crescita artistica, nei miei momenti più belli, ed è stato un giornale di formazione.

Ma poiché credo che nel creare come nel vedere spettacoli sia importante il rigore, mi è servito a volte avere una scossa, che mi era utile per capire o vedere qualcosa di cui non mi ero accorta. Dalle vostre pagine non ho avuto delle semplici recensioni che fossero più o meno positive, o di semplice gusto, ma un’analisi attenta del mio percorso artistico che mi è stata utile a progredire.

Proprio perché io sono esigente e perfino severa nel mio lavoro, apprezzo chi mostra lo stesso rigore nel parteciparvi.

Il nemico vero è oggi la sciatteria, professionale e giornalistica, che tende a evitare il conflitto finendo per avallare la generale banalità in cui siamo immersi.