Nel 1921 Sergej Ejzenstejn appuntò su un pezzo di carta questa frase: “L’attore è un uccello che con un’ala sfiora la terra, mentre l’altra si staglia nel cielo”, la disse Mejerchol’d, di cui il regista era allievo.

Un anno prima, il 20 ottobre 1920, ad Ejzenstejn era stato affidato il primo teatro operaio del Teatro Proletario, l’anno successivo, in novembre, metteva in scena Il saggio da Ostrovskij, montando acrobatiche visioni in alto e in basso sulla scena con materiali filmati. Lo spettacolo andò in scena nel 1923.

Nel gennaio dell’anno successivo moriva Vladimir Il’ic Ul’janov detto Lenin, l’artefice della Rivoluzione di Ottobre. Nello stesso 1924 Ejzenstejn realizzava Stacka, Sciopero!, uno dei suoi capolavori cinematografici.

Questo intersecarsi di date e di combinazioni mi torna in mente in un altro ottobre a cento anni dalla Rivoluzione Sovietica, vedendo sulla scena l’enorme testa di Lenin che campeggia, cinta d’alloro, sul palco dell’altrettanto monumentale Teatro Olimpico di Vicenza, nell’imponente e suggestiva messinscena di Octavia, Trepanation ideato da Boris Yukhananov e Sergej Adonjev, rispettivamente regista e light designer dello spettacolo prodotto da Stanislavsky Electrotheatre di Mosca, dalla Fondazione Lenin UK e dall’Holland Festival in collaborazione con Change Performing Arts, e andato in scena in prima italiana per il 70° ciclo di Spettacoli Classici denominato quest’anno Conversazioni 2017, con la direzione artistica di Franco Laera.

Si tratta di un’opera dove l’impianto visuale, quello teatrale, e quello musicale (a opera di Dmitri Kourliandski, anche autore del libretto assieme a Yukhananov, con parti cantate solistiche e corali) vengono montate dando luogo a un intarsio filmico, scenico e sonoro che solca anacronicamente la storia dell’uomo e il suo rapporto con il potere, il quale è sempre passibile di arbitrio, di rigidità metafisica, così come è sottoponibile a rovesciamento, scoronamento, decostruzione.

Per gli autori dello spettacolo si tratta addirittura di “trapanazione”, scoperchiamento del cranio, svuotamento di ogni cristallizzazione dell’io per restituire alle masse e al popolo, al lavoro creativo e operaio dell’uomo la sua centralità. Il cranio di Lenin (il cui corpo ricordiamolo venne mummificato, per volere di Stalin, e contro le volontà di Lenin che invece voleva essere seppellito accanto ai compagni, dando così luogo a un culto postumo della personalità) costituisce il fulcro scenico dello spettacolo, collocato in alto, con gli occhi che si accendono di luce e la calotta scoperchiata e resa praticabile e abitabile dagli stessi attori.

A Vicenza ciò avveniva con una proiezione (che allestiva una suggestione tridimensionale e una profondità di campo filmica) dove ciò che dal vivo sulla scena si dispiegava, trovava un riflesso visuale e temporale sfalsato e allontanato, e trasferito in una sorta di cielo, di cupola celeste simile a un “Pantheon”, ma che (come per l’attore-uccello mejercholdiano) allunga le sue ali in alto per precipitare poi in basso, sul grande impiantito dell’Olimpico e sullo spazio di una platea nascosta agli occhi del pubblico (ma da cui provengono i suoni dell’orchestra).

Lo spettatore è collocato a sua volta su una tribuna che permette una visuale dall’alto. Una complessa macchina scenica, ma una altrettanto complessa struttura drammaturgica. Infatti il testo da cui si parte (e che viene messo in relazione con gli anni cruciali del Novecento successivi al decesso di Lenin, forse per aterosclerosi cerebrale) è una tragedia latina, Octavia, attribuita a Seneca, e unico esempio di genere “Praetexta”, cioè di argomento romano, ma soprattutto unico, vertiginoso esempio di azione drammatica “in presa diretta” e insieme en abyme, una sorta di metateatro.

L’azione, tutta politica, vede Nerone e Seneca (lo stesso possibile autore) come personaggi in un frangente storico, il 62 d.C. molto indicativo. L’imperatore intende sposare Poppea, ripudiare e far assassinare la moglie Ottavia, sua sorellastra adottiva, lascito perturbante dell’ombra materna di Agrippina, che appare come spettro. Ma il popolo si ribella e vuole che Ottavia resti in vita, il filosofo-mentore Seneca instaura una dialettica dissuasoria con l’imperatore e i suoi capricci (sappiamo come finì il drammaturgo-pensatore, obbligato a uno stoico suicidio dall’arbitrio del potere).

Con un inquietante volo benjaminiano (l’Angelo della Storia che guarda al passato delle rovine e viene spinto ad ali spiegate verso il futuro dal vento dell’avvenire) lo spettacolo immette sulla scena, quasi doppio senechiano, un Lev Trotskij che recita le parole di un saggio su Lenin, mentre attraversa lo spazio un coro di soldati sotto le sembianze dell’armata dei guerrieri di terracotta cinesi, come emersi dal sottosuolo dei secoli, portavoce di canti rivoluzionari.

E se c’è un’ombra che aleggia è quella del potere staliniano incipiente.

Ne risulta una specie di inno ai “non riconciliati”, una “trenodia” e una melopea di grande presa in cui l’appello alla potenza di ogni rivolta contro il potere costituito e la necessità di tenere la spinta rivoluzionaria nella permanenza della sua vita sempre attiva, si fa parola, canto, gesto, movimento e immagine.

Tutto appunto culmina in una visione, là in alto sullo schermo. L’apparizione nel cranio di Lenin di un Buddha in meditazione, il cui volto però è quello della rivoluzione, di un Lenin che si trasforma in anima collettiva in cui si libera e si libra l’idea a volo d’uccello dell’uomo nuovo, del nuovo attore della Storia.

“La rivoluzione si è manifestata in forme non prevedibili, non ci sono più regole”, dice il regista. E allora lo spazio è invaso dal coro che, dismessi le armature di terracotta, entrano in tuta, ognuno con il proprio nome, la propria singolarità scritta sulla maglia, e si rivela come la “comunità” degli operai creativi, di coloro che muovono le forze storiche. Sono i coristi, i macchinisti, i lavoratori.

E torniamo a pensare a quel teatro operaio di Ejzenstejn, agli uomini che a vista sulla scena del Teatro Proletario muovevano arredi, suppellettili, accessori in cui le immagini si incarnavano. Allora come ora, in un “ottobre teatrale”.