Un’indagine sulle fonti orali, alle origini del Biennio rosso
Cultura

Un’indagine sulle fonti orali, alle origini del Biennio rosso

Saggi «L’alba intravista» di Cesare Bermani e Marcello Ingrao, edito per Biblioteca di prospettiva marxista
Pubblicato circa un mese faEdizione del 15 ottobre 2024

Il vero inizio della storia orale in Italia sta in un saggio di Cesare Bermani pubblicato su Primo Maggio a metà anni Settanta, intitolato «Dieci anni di lavoro con le fonti orali». Fino allora c’erano state esperienze sporadiche (Rocco Scotellaro, Danilo Montaldi), riflessioni anticipatrici (Gianni Bosio), ma è solo con Bermani che il lavoro con le fonti orali comincia ad assumere una sua riconoscibile dimensione metodologica, conoscitiva e politica. E forse, a posteriori, l’indicazione più importante in quel titolo sta nell’indicazione di durata: «dieci anni di lavoro»: la storia orale è sempre una lunga fatica, non una scorreria di breve respiro, un sondaggio accademico a scadenza ma un impegno costante e sempre rinnovato.

Lo dimostra il libro uscito di recente, L’alba intravista. Militanti politici del Biennio rosso tra Piemonte e Lombardia (Biblioteca di prospettiva marxista, pp. 564), a cura di Cesare Bermani e di Marcello Ingrao. Qui, infatti, Bermani raccoglie e trascrive una trentina di interviste e storie di vita di militanti politici registrate nell’arco di quei dieci anni (e accompagnate da accurate ricostruzioni biografiche e contestualizzazioni storico-politiche del co-curatore Marcello Ingrao).

Il tema sono gli anni di conflitti e di lotte fra la fine dalla prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo: l’occupazione delle fabbriche, le lotte contadine e operaie, le aggressioni fasciste, la «battaglia di Novara» del 1921 (a cui Bermani aveva già dedicato un libro magistrale), le origini di tanto canto politico e sociale che abbiamo imparato nei decenni successivi – e, sullo sfondo, «l’alba intravista» della rivoluzione – la «Gerusalemme rimandata» di cui scriveva Vittorio Foa, sempre a portata di mano e mai attinta.

LE PERSONE CHE RACCONTANO, uomini e donne, appartengono un po’ a tutto l’arco delle forze sociali, dal riformismo socialista al bolscevismo più acceso. Sono tutti schierati, tutti anche etichettabili – ma le etichette non rendono conto della fluidità delle identità personali e politiche, fra anarchici, socialisti, comunisti il terreno era fluido, le relazioni personali continue, anche in fasi di astratto settarismo politico. Tra le persone che raccontano nel libro, non ce ne sono due uguali fra loro, nessuna è riducibile alla sua appartenenza politica. E non ce n’è una che non attraversi un cambiamento, che alla fine del suo tragitto di vita non sia differente da come era cominciato. Notevole ciò che dice Giovanni Cerina, nato a Trecate nel 1888 (intervistato nel 1972), «servitore in campagna a tredici anni, emigrato in Svizzera, minatore in Francia, soldato prima e durante la Grande Guerra», esule e rifugiato politico: «sempre, son sempre stato comunista. Prima ero socialista». C’è un «prima» di «sempre», uno diventa quello che è «sempre stato» anche evolvendo quello che era «prima».

La prima cosa che fanno capire le fonti orali è proprio il fatto che la necessaria sintesi definitoria nasconde il pullulare di differenze. Oppure: delle volte leggere la storia è come guardare le highlight delle partite, vediamo i gol e i momenti culminanti ma non quel tessuto di azioni e gesti minuti che sta fra l’uno e l’altro e li rende possibili, e che solo un lavoro costante con le fonti orali ci permette di riconoscere.

Le storie raccolte da Cesare Bermani ci danno conto di una quotidianità minuziosa, di intrecci di amicizie, di rapporti personali, conversazioni e discussioni, trasformazioni e coerenze. Non si lavora per la rivoluzione solo nei grandi momenti di conflitto, ma ogni giorno, in fabbrica, in campagna, in famiglia, all’osteria, per strada, intrecciando la pratica politica ai gesti ordinari della vita e delle relazioni sociali. È passato più di un secolo e forse il giudizio politico su quelle vicende – chi aveva ragione, quale fosse la linea giusta, se certe cose erano o no possibili… – cede il passo a qualcosa di più profondo, al riconoscimento di questo minuzioso protagonismo di non protagoniste e protagonisti che è la materia umana e sociale di cui è fatta la storia.

RESTA UNA DOMANDA: come la (intra) vedevano l’«alba», quelle donne e quegli uomini che dedicavano la vita a renderla possibile? Sul mondo in cui vivevano e hanno vissuto, la memoria e il giudizio sono rigorosi e lucidi; sul mondo che desiderano non c’è praticamente parola. Forse pensavano di non averne bisogno: per tanti di loro, il sol dell’avvenire era già sorto, e splendeva sull’Unione Sovietica. Forse, fra le tante cose che abbiamo da rimproverare al comunismo reale, c’è anche quello di averci reso così difficile immaginarne un altro.

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