Nella storia del pensiero prerivoluzionario russo è spettato ai movimenti populisti delle ultime decadi dell’Ottocento dissodare il terreno dell’emancipazione femminile proponendo nuovi modelli di donna che mettessero in discussione l’istituto del matrimonio e il concetto di amore come appartenenza, prefigurando l’avvento di una società egualitaria, pacifica e prospera che fosse al contempo al riparo dalla prevaricazione maschile.

Senza quel lavoro strenuo e appassionato sarebbe stata impensabile la comparsa di una figura dirompente come quella di Aleksandra Kollontaj: rivoluzionaria, pacifista, diplomatica, pedagogista e soprattutto paladina di un empowerment femminile ante-litteram, raggiunse traguardi fino ad allora preclusi alle donne nella sfera pubblica, mentre in quella privata inverò l’utopia di liberazione sognata nel Che fare? di Černyševskij.

Un suo intenso ritratto biografico, dovuto a Hélène Carrère d’Encausse – studiosa francese di lungo e prestigioso corso, storica della Russia e dell’Unione Sovietica, voce tuttora interpellata nel nostro travagliato presente – esce ora da Einaudi: Aleksandra Kollontaj. La valchiria della rivoluzione (pp. 168, € 23,00). Un’esistenza lunga e decisamente burrascosa, la sua, passata in parte all’estero, come esiliata per sfuggire alla polizia zarista, come infaticabile congressista nelle città europee ma anche negli Stati Uniti e in Messico, e infine come apprezzata rappresentante dello stato sovietico nei paesi scandinavi (dal ’22 al ’45, sfiorando il Nobel per la Pace per gli sforzi diplomatici volti a placare le ostilità tra Finlandia e Urss nei primi anni ’40).

Pietroburghese, di natali altolocati e di indole impavida, ci lascia un’eredità di pensiero corposa e una lezione di indipendenza riconoscibile nella volontà di restare sempre saldamente al comando del proprio destino e al fianco delle donne: riuscì, nei fatti, a scalfire (almeno temporaneamente) il patriarcato russo, guadagnandosi l’accesso ai vertici della politica e alla diplomazia d’alto rango, scansando le manifestazioni di condiscendenza a colpi di argomentazioni veementi, di posizioni irriducibili e di interventi persuasivi. Varcato il solco sociale a lei predestinato, scardinò i limiti imposti al suo sesso da un rassicurante matrimonio borghese.

La sua azione in favore delle donne si tradusse in una mobilitazione inesausta delle lavoratrici russe, nella fondazione di istituti in loro difesa, in molteplici progetti destinati a instaurare la parità. Si coordinò, soprattutto all’inizio del suo percorso, con le esponenti tedesche, francesi e inglesi della lotta per il suffragio femminile e la conquista di misure di tutela sul lavoro e per la maternità.

Oltre a firmare testi di propaganda e di riflessione teorica, fu autrice di una narrativa di respiro e impegno notevoli (la cui summa è forse Gli amori delle api operaie), per quanto di solito liquidata come didascalica e dotata di un trascurabile appeal romanzesco.

La sua opera di femminista è tanto più ammirevole in quanto incontra una doppia resistenza: non solo quella della società russa tradizionale, ma anche quella all’interno del suo stesso schieramento politico, che considerava le richieste delle donne come marginali, se non addirittura controproducenti, per la causa della rivoluzione prima e dell’instaurazione del comunismo poi.

Alle rivendicazioni di emancipazione si accompagnava, sul piano personale, la ricerca della libertà e della felicità amorosa, perseguita lungo l’affollata galleria di uomini avvicendatisi al suo fianco, dal primo marito Kollontaj – che le lasciò il cognome e un figlio – presto lasciato indietro per dedicarsi agli studi e all’attività politica, ad Aleksandr Satkevič e Petr Maslov, dal giovane bolscevico Aleksandr Šljapnikov al quasi analfabeta marinaio del Baltico Pavel Dybenko, anch’egli ben più giovane di lei. Fino a quel Marcel Body, comunista e diplomatico, che le sarà vicino per lunghi anni nonostante la grande differenza di età.

Le posizioni politiche di Kollontaj scaturivano dalla sua speciale sensibilità per tutti coloro che si trovavano in difficoltà, e il suo impegno per migliorare le sorti del proletariato si consolidò attraverso assidue letture e studi, prima nella capitale russa poi a Zurigo, dove si recò per approfondire il pensiero marxista (tra i tanti incontri, quello con Rosa Luxemburg, da cui rimase abbagliata).

Di iniziali simpatie mensceviche, fu sempre più attratta nell’orbita di Lenin: lo aveva conosciuto già nel 1905 e a distanza di sei anni le loro strade si erano incrociate di nuovo a Parigi; ancora nel 1914 lui la teneva a distanza come menscevica, e allo scoppio della guerra ne deplorò il pacifismo.

Ma all’epoca della rivoluzione di febbraio fu lei a organizzare, dalla Norvegia, il rientro in Russia del leader bolscevico, precedendolo e portando con sé le sue celebri Lettere da lontano destinate alla Pravda.

Per almeno un lustro ne diventerà una sorta di portavoce (non senza passare per un periodo di detenzione nelle carceri di Kresty sotto il governo Kerenskij), guadagnandosi l’appellativo di intrepida «Valchiria della Rivoluzione» per le sue doti di formidabile oratrice capace di trascinare le folle.

Nel governo uscito dalla rivoluzione di ottobre ebbe l’incarico di Commissario del popolo per gli affari sociali, ma alla fine del 1921 si schierò con l’Opposizione operaia, che denunciava l’evoluzione autoritaria del partito, ipercentralizzato e burocratizzato.

Le sue divergenze intellettuali e politiche si traducevano in critiche sempre più radicali, finché con un infiammato discorso al Terzo Congresso del Comintern, nel giugno del 1921, sfidò apertamente il partito giudicando la Nep un tradimento della classe operaia.

La causa della Rivoluzione ha avuto in Russia un volto di donna che avrebbe potuto imprimere al corso degli eventi un diverso svolgimento

Riprendere in mano ancora una volta il filo delle vicende che mutarono la Russia in Unione Sovietica, ma con gli occhi e le aspettative di Kollontaj, come viene fatto in questo libro, vuol dire restituire alla sua figura quella centralità che le fu negata dagli uomini del suo stesso partito e dalla storiografia successiva.

La causa della Rivoluzione ha avuto in Russia un volto di donna che avrebbe potuto imprimere al corso degli eventi un diverso svolgimento, viene da pensare.

Carrère non manca di interrogarsi, nelle Conclusioni, anche sul punto dolente della sua parabola di amazzone della politica: il segreto di un destino privilegiato rispetto alle tante vite spezzate al tempo del Terrore, nel quadro della feroce lotta per il potere di quegli anni.

Aleksandra Kollontaj, 1938
«Ho capito che la Russia non poteva passare dall’oscurantismo alla libertà in pochi anni. La dittatura di Stalin o di chiunque altro, che avrebbe potuto chiamarsi anche Trockij, era inevitabile»

Nel 1938 la stessa Kollontaj constatava come solo due dei compagni di Lenin di una volta fossero rimasti in vita: Stalin e lei. Aggiungendo (si trattava di una conversazione privata): «Ho capito che la Russia non poteva passare dall’oscurantismo alla libertà in pochi anni. La dittatura di Stalin o di chiunque altro, che avrebbe potuto chiamarsi anche Trockij, era inevitabile».

Di certo, gli esiti della collisione tra rivoluzione e arretratezza, che tanto l’avevano colpita, a distanza di un secolo sono tuttora sotto i nostri occhi, in Russia.