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Un omicidio chiamato «epilessia»

Un omicidio chiamato «epilessia» – Eidon

Stefano Cucchi Non è il perito Introna a dover definire il nesso causale tra violenze subite e morte. Saranno i magistrati a farlo. Dal canto nostro, pensiamo che sia possibile arrivare a un processo per omicidio preterintenzionale

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 6 ottobre 2016

Per parlare dell’ultimo capitolo del cosiddetto «caso Cucchi», è forse utile partire dall’ultimo capitolo del cosiddetto «caso Uva». Una settimana fa la Procura generale di Milano ha impugnato la sentenza con la quale i giudici della Corte d’assise di Varese avevano assolto due carabinieri e sei poliziotti, accusati di omicidio preterintenzionale ai danni di Giuseppe Uva.

La notizia, ampiamente trascurata da tutti i media, è clamorosa: e sottrae a quello che sembrava un oblio fatale una vicenda che ha conosciuto un particolare «accanimento giudiziario», destinato a mortificare la verità, da parte di procuratori poi moralmente e disciplinarmente sanzionati. Il primo responsabile di questo scempio è un pubblico ministero, Agostino Abate, che, infine, è stato trasferito – ma è tuttora titolare di un ufficio – per aver trattenuto per 26 anni il fascicolo relativo all’omicidio di una giovane donna, Lidia Macchi. Non troppo diversamente Abate si è comportato col fascicolo relativo alla morte di Uva. E ha trovato altri magistrati disposti a tenergli bordone. Ma ecco, finalmente, l’appello della Procura generale di Milano. La quale, senza mezzi termini, parla di una sentenza di primo grado motivata «in modo estremamente sommario» e non condivisibile su una serie di punti essenziali.

I giudici di Varese avevano escluso la configurabilità dell’omicidio preterintenzionale per insussistenza di atti diretti a percuotere o ledere, ma – secondo il procuratore di Milano – anche solo l’ammanettamento e la costrizione fisica integrano «certamente una manomissione» della persona di Uva. Inoltre, devono ritenersi provati anche «gli atti diretti a commettere il delitto di lesioni personali», in quanto ben tre testimoni li hanno confermati e sarebbero l’unica spiegazione plausibile di una serie di ferite riscontrate sul corpo di Uva (mentre, di esse, nella sentenza di primo grado non era stata data alcuna spiegazione).

Infine, il tribunale di Varese aveva accertato la sussistenza del sequestro di persona, ma i due carabinieri erano stati assolti perché incorsi in un «errore scusabile»: non sapevano di stare commettendo un reato trattenendo Uva in caserma per oltre due ore senza alcun fondamento. La procura generale di Milano, al contrario, ritiene che gli imputati «limitarono illegittimamente la libertà personale di Uva», in maniera deliberata e con la consapevolezza di infliggere una illegittima privazione della sua libertà personale.

Come non pensare a tutto ciò mentre la gran parte dei media ci racconta che sette anni fa, Stefano Cucchi – picchiato recluso abbandonato umiliato per sei lunghissimi giorni e notti – è morto «di epilessia»? In questo tempo che ci separa dal 22 ottobre del 2009, ogni scadenza prevista per sciogliere i dubbi enormi che gravano su quella morte si è esaurita, senza che le tante indagini, i diversi gradi di processo, la mobilitazione dell’opinione pubblica e l’impegno dei familiari trovassero un’adeguata risposta, almeno un qualche sollievo e un po’ di pace. Fino all’altro ieri. Quando sono state depositate le 205 pagine della perizia di ufficio firmata dal collegio presieduto da Francesco Introna e richiesta dal giudice per le indagini preliminari nell’ambito dell’incidente probatorio per il processo bis.

È un documento che si dipana lungo un labirinto di ipotesi affermate e negate insieme, di proposizioni enigmatiche, di dinieghi complici e accortamente predisposti, ma proviamo qui a evidenziarne i passaggi fondamentali. Dopo tanti conflitti a colpi di consulenze tecniche, finalmente questa perizia riconosce senza dubbio alcuno la frattura della vertebra L3. Questo accertamento è, tuttavia, oscurato, attraverso l’indicazione di due possibili cause di morte: ed è proprio qui cha fa il suo ingresso in scena l’incredibile ipotesi dell’epilessia. In questi sette anni, ne abbiamo sentite – alla lettera – di tutti i colori: Stefano Cucchi è morto di fame e di sete, ma anche forse in quanto «anoressico», e perché si drogava.

Leggere adesso che la causa di decesso più probabile sia l’epilessia – pur concludendosi che la stessa ipotesi è «priva di riscontri oggettivi» – induce a chiederesi quale sia la competenza professionale cui hanno fatto ricorso tali mirabili esperti.

La seconda ipotesi, d’altro canto, riconosce tutte le risultanze cliniche già evidenziate dai medici legali della parte civile, la più importante delle quali riguarda il ruolo del globo vescicale come causa di morte in conseguenza delle fratture. Il nesso causale si sostanzierebbe nei seguenti passaggi: frattura che provoca la ritenzione urinaria, la quale provoca il globo vescicale, il quale determina «un’intensa stimolazione vagale»; e questa, a sua volta, cagiona la brachicardia che porta Stefano Cucchi alla morte.

Si dovrebbe esser soddisfatti per questo esito, se non fosse che il presidente del collegio dei periti, piuttosto che limitarsi al ruolo di medico legale, finisce con l’auto-investirsi di una funzione giudicante e tira le sue conclusioni: «Chi ha picchiato selvaggiamente Stefano Cucchi non è responsabile della sua morte». Perché tanto zelo? Forse perché se, per esempio, gli infermieri avessero semplicemente fatto, loro sì, il proprio lavoro, il decesso non sarebbe sopraggiunto.

In altre parole, non è il perito Introna così come non siamo noi, a dover definire il nesso causale tra violenze subite e morte. Saranno i magistrati della procura di Roma e i giudici a farlo. Dal canto nostro, pensiamo che con questa perizia sia possibile arrivare a un processo per omicidio preterintenzionale.

In questo scenario drammatico cerca di trovare un suo spazio la figura grottesca del parlamentare Carlo Giovanardi: uomo che appare desolatamente infelice, affetto da una pulsione necrofila che lo induce a inseguire le morti più tragiche per diffamare le vittime e sfregiarne la memoria. Si immagina come tutore dell’onore delle forze di polizia e ne risulta il principale nemico. L’effetto delle sue sgangherate parole è, infallibilmente, quello di omologare interi corpi come quello dei carabinieri, della polizia di stato e di quella penitenziaria, al comportamento illegale di quei pochi, pochissimi, che si sono resi responsabili di crimini.

 

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