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Un male senza cura: la crisi della salute mentale in Israele

Un male senza cura: la crisi della salute mentale in IsraeleManifestazione per la liberazione degli ostaggi israeliani, Tel Aviv – Ap

Nessun sostegno ai cittadini Una sopravvissuta al massacro del Nova festival si toglie la vita

Pubblicato 4 giorni faEdizione del 24 ottobre 2024

Sabato, nel giorno del suo ventiduesimo compleanno, si è tolta la vita Shirel Golan, una dei giovani sopravvissuti al massacro di Hamas al Nova Festival. Shirel purtroppo non è la prima dei sopravvissuti ad essersi tolta la vita, ma dei suicidi, così come dei soldati mutilati, in Israele si parla ancora molto poco.

NELLA STAMPA estera, poi, la sua morte, come quella dei civili, degli ostaggi e dei soldati israeliani che hanno perso la vita nell’ultimo anno, vengono inghiottite -non senza un certo imbarazzo – dalla moltitudine infinita delle vittime senza nome di Gaza e ora anche del Libano. A prescindere dalla sacralità di ogni singola vita umana che va ben oltre etnie e opinioni politiche, la morte di Shirel non va ignorata perché costringe il mondo a confrontarsi con l’interrogativo dal quale persiste nel sottrarsi, quello della cura di Israele.

Mentre i palestinesi sono letteralmente occupati a sopravvivere, gli israeliani, godono di un “margine di benessere” che fa scendere l’adrenalina quel che basta per entrare in contatto con angoscia, disperazione e rassegnazione. Oltre 12 mesi di esposizione più o meno diretta a violenza, lutti, feriti, ostaggi, sfollati, manifestazioni, incertezza economica e politica e pericolo costante, manovrati da istituzioni che, invece di traghettare il paese fuori dalla crisi non fanno che buttare benzina al fuoco, ha piegato anche il sistema nervoso dei più resilienti. Lo stato ebraico vive quindi una vera e propria emergenza sul fronte della salute mentale, per far fronte alla quale sono stati investiti molti sforzi da parte di professionisti e ricercatori, mentre fondi ingenti sono stati finalmente destinati al precario sistema pubblico per potenziare e formare il personale, rendere accessibili i servizi e ridurre le liste d’attesa.

TUTTAVIA la famiglia di Shirel, disperata, denuncia lo stato che, oltre a non essere intervenuto in tempo quel disgraziato sabato mattina, non avrebbe saputo prendersi cura dei superstiti abbandonandoli al proprio destino. Del resto basta navigare sui social per capire che la depressione e l’ansia dilagano, e con esse l’uso di psicofarmaci, droghe e alcol, insieme a una buona dose di negazione della realtà che sembra aver superato di parecchio ogni sano meccanismo dissociativo. Da un paese come Israele, dove per tradizione i cittadini se non sono terapeuti sono quanto meno pazienti, ci si sarebbe aspettato di meglio, ma se le cure non funzionano bisogna indagarne le ragioni. Gli esperti puntano il dito sull’unicità degli eventi traumatici del 7 ottobre, e sulla conseguente assenza di letteratura scientifica sull’argomento che li obbliga ad adattare, inventare e sperimentare nuove forme di terapia, dilatando i tempi. Senza nulla sottrarre in particolare alla sofferenza di chi ha vissuto gli orrori in prima persona, non si può fare a meno di chiedersi se non sia proprio questa percezione di “unicità”, dovuta ad una problematica chiave di lettura degli avvenimenti, l’angolo buio che trae in inganno gli stessi operatori, indebolendo la loro capacità di “curare”. Una conferma viene dai comunicati diffusi dalle società psicoanalitiche israeliane, più occupate a difendersi e a criticare l’antisemitismo dei colleghi oltre mare, che a condannare fermamente le operazioni militari e l’occupazione a carico dei palestinesi, grandi assenti anche dal campo analitico.

UNO DEI POCHI a denunciare apertamente il circolo vizioso in cui versano i suoi compatrioti è lo psicoanalista, psichiatra e storico israeliano Eran Rolnik. Nei suoi contributi Rolnik descrive la società ebraica come intrappolata nel meccanismo perverso che caratterizza un regime autoritario: peggiore è la situazione politica, la guerra e l’isolamento internazionale, maggiore è la paura della verità e più danneggiata è la volontà di impegnarsi nel cambiamento e nella riparazione. In questo schema, invece di rafforzarsi quale soggetto consapevole e in grado di influire sulla realtà in cui vive, il paziente rischia di diventare la vittima inerme di una catastrofe abbattutasi su di lui al di fuori di un contesto storico-politico preesistente.

SE IL CONTATTO con la verità, o quanto meno un sincero desiderio di cercarla, è venuto meno, se gli stessi psicoanalisti rivivono inconsciamente il trauma irrisolto della Shoah che li rende troppo coinvolti emotivamente, l’aiuto deve venire dall’esterno. Le società psicoanalitiche per prime hanno gli strumenti per interrogarsi sulle modalità di intervento e insieme il dovere di rispondere all’imperativo etico rivoltoci dal gesto disperato di Shirel, nella consapevolezza che proprio la cura dell’animo degli israeliani potrebbe garantire anche ai palestinesi un future migliore.

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