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Kamala, il genocidio e le verdure. Segnali sinistri di disumanizzazione

Alla ricerca di sopravvissuti dopo un raid israeliano a Gaza foto ApAlla ricerca di sopravvissuti dopo un raid israeliano a Gaza – foto Ap

Opinioni Una frase della candidata democratica suona come uno di quegli avvertimenti di cui ha scritto Primo Levi. Mentre a Gaza procede il processo di controllo totale sui corpi

Pubblicato 9 giorni faEdizione del 27 ottobre 2024

Ha destato scalpore un’intervista alla Cnn nella quale Kamala Harris ha accostato le reazioni provocate dalle immagini delle vittime dei bombardamenti a Gaza e in Libano alle preoccupazioni per l’aumento del prezzo delle verdure.

Non è chiaro quale fosse il punto di questo infelice accostamento (imporre un cessate il fuoco non farebbe salire il prezzo dei broccoli), ma l’effetto su una parte degli elettori statunitensi non è stato positivo. L’idea che si possano tenere insieme, confrontandoli, fatti incommensurabili come l’uccisione di decine di migliaia di persone, tra le quali ci sono molte donne e bambini, e l’aumento del costo della verdura desta stupore, e spinge a chiedersi se non abbiamo superato una soglia morale che dovrebbe essere inviolabile.

«Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana». Primo Levi scrisse queste parole tra il dicembre del 1946 e il gennaio del 1947. La guerra era finita, gli ebrei sopravvissuti allo sterminio nazista erano stati liberati dagli alleati (furono le truppe sovietiche a restituire la libertà a Levi, il 27 gennaio del 1945), ma il giovane torinese sente il bisogno di raccontare ciò che ha visto. Più tardi dirà che lo fece assumendo «deliberatamente il linguaggio pacato e sobrio del testimone, non quello lamentevole della vittima né quello irato del vendicatore: pensavo che la mia parola sarebbe stata tanto più credibile e utile quanto più apparisse obiettiva e quanto meno suonasse appassionata; solo così il testimone in giudizio adempie alla sua funzione, che è quella di preparare il terreno al giudice».

DA QUESTO SFORZO di obiettività nasce la descrizione del modo in cui si può privare, passo dopo passo, un essere umano della propria umanità. Attraverso un processo reso inesorabile dal controllo totale esercitato sui corpi dei reclusi nel campo di sterminio, i carcerieri li spingono oltre il limite che consente di riconoscerli, e di riconoscersi, come persone. Privati di tutto, a questi esseri umani rimane soltanto la nuda vita, sottoposta all’arbitrio altrui.

Ciò che rende preziosa la testimonianza di Levi ancora oggi è proprio la capacità di andare oltre l’esperienza individuale, rendendo accessibili al lettore le caratteristiche di un fenomeno che non può essere messo tra parentesi come se fosse una «singolarità» da relegare nella dimensione della storia, di un passato che non può tornare. Levi vede la disumanizzazione di cui è stato tra le vittime come «un sinistro segnale di pericolo». Descrive il passato, ma si rivolge al futuro. Questo non vuol dire che le vicende della Shoah perdano nei suoi scritti il proprio carattere distintivo, ma nella descrizione di come si può privare una persona della propria umanità c’è l’intento di mostrare che processi simili possono, e potrebbero, ripetersi, in altre circostanze, a opera di altri carnefici e a danno di altre vittime. Perché è l’umanità a essere estirpata dalla disumanizzazione.

ALL’INCIRCA negli stessi giorni in cui le truppe sovietiche liberano Levi e gli altri sopravvissuti nel campo di Buna-Monowitz, un altro ebreo, sfuggito alla persecuzione nazista, sta redigendo la prefazione di un libro destinato a avere una grande influenza sulla filosofia della seconda metà del Novecento. Si tratta di Ludwig Wittgenstein. Le Ricerche filosofiche vedranno la luce solo dopo la morte dell’autore, nel 1953. Contrariamente a quel che molti pensano, si tratta di un testo incentrato sull’umanità, e sulla pluralità di forme di vita nel cui ambito essa dispiega la propria natura. Wittgenstein non affronta direttamente il tema della Shoah, ma l’allusione «all’oscurità del tempo presente» nella prefazione è un sintomo dell’inquietudine con cui vive gli ultimi mesi di guerra. Nel settembre del 1945, in una lettera a Victor Gollancz, che aveva scritto un pamphlet contro l’idea che ci fosse una colpa collettiva dei tedeschi per la Shoah, Wittgenstein manifesta il proprio consenso nei confronti di un atteggiamento più umano verso gli sconfitti. Tuttavia, egli critica il tono di Gollancz, che si presentava come «un ebreo che crede nell’etica cristiana». Scrivendo degli «orrori di Buchenwald», gli chiede Wittgenstein, desideri «convincere solo quelli che sono d’accordo con te sul Vecchio e sul Nuovo Testamento?».

Come Levi, Wittgenstein avverte l’esigenza di una descrizione essenziale, che mostri la possibilità di certi fenomeni. La sua osservazione che «il corpo umano è la migliore immagine dell’anima umana», ci aiuta a comprendere perché la disumanizzazione passa attraverso l’accanimento sui corpi: per privarli progressivamente di tutto quello che li identifica come persone.
Mettere sui piatti della nostra bilancia morale un bambino morto e una confezione di verdura è un segnale sinistro, come avrebbe detto Levi, del fatto che il processo di disumanizzazione delle vittime della guerra in Medio Oriente ha superato la soglia oltre la quale il senso di affinità che dovremmo sentire per loro in quanto persone si è perso.

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