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Un irregolare comunista italiano

Un irregolare comunista italianoGianni Borgna – Eidon

Lutto Gianni Borgna se n’è andato a 67 anni. Un uomo gentile, un politico di razza, un intellettuale sapiente. Il Pci è stato l’unico partito che ha veramente amato. Oggi la camera ardente in Campidoglio

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 21 febbraio 2014

Se mi chiedessero di dire in poche parole che cosa è stato Gianni Borgna, direi senza esitazioni: un comunista italiano. Il Pci è stato il solo partito che abbia veramente amato. Non solo il Pci, ma l’Italia del Pci.

Le sue radici sono lì: nei comizi di Togliatti, che da adolescente andava a sentire a piazza San Giovanni; nella rivolta dei ragazzi con le magliette a strisce; nelle intensità dei dibattiti culturali che allora si accendevano; nella Roma popolare e colta di Moravia, Pasolini, Gadda.

Nelle abitudini ingenue, sane, schiette di una generazione che nei licei romani, come il Mamiani, andava in lambretta, ascoltava Paoli, Tenco e Bindi. Leggeva Sartre. Scopriva il rock. Andava tutti i giorni al cinema, amando immensamente Truffaut, Malle, Godard e, oltre oceano, l’immenso Hitchcock, da Gianni considerato il più grande.
Le sue radici sono nei fidanzamenti di allora tra i banchi di scuola, vissuti come trasgressioni audaci, ma in realtà timide e prudenti prove di sesso, piene di tenerezza e di amore giurato come eterno.

E così sarà: la sua intelligente e densa compagna Anna Maria, di cui si innamora da ragazzo e che poi perde di vista, e con la quale si rincontra dopo tanto tempo, diventerà la donna della sua vita: come in una di quelle storie che gli piacevano tanto nelle quali il destino porta a suggellare nella realtà una fusione idealizzata di anime.

Borgna, poi, è stato un dirigente del Pci, con incarichi importanti. Nel ’73 segretario della Fgci di Roma. Poi nella segreteria nazionale della Fgci. Nella seconda metà degli anni ’70, consigliere regionale del Lazio e capogruppo del Pci. Negli anni ’80 dirigente nazionale del dipartimento culturale. Infine, per un lunghissimo tempo, indimenticabile assessore alla cultura del Comune di Roma.

Ma la biografia non rende giustizia del suo ruolo reale. Della sua influenza e delle sue capacità che gli derivano, appunto, da quell’impronta tutta particolare che mischiava in lui il rigore etico e di lavoro acquisito nel durissimo tirocinio di funzionario di partito, l’apertura mentale e il bagaglio culturale di un vero intellettuale e la voracità di vita di un eterno fanciullo ribelle.
Perché Gianni era sì un comunista italiano, ma irregolare, sorprendente, fantasioso, curioso, sapiente e geniale, paradossale e dialogante persino con la cultura più apertamente di destra. E così oscillava continuamente dalle sue attività più propriamente politiche alle sue passioni più profonde. Irriducibili spazi di libertà nella noia ripetitiva degli impegni pubblici: lasciò l’incarico di capo gruppo per scrivere sui banchi della Pisana, di nascosto, i suoi imponenti libri sulla canzone italiana.

La sua produzione è stata grandissima: dvd, film, documentari, articoli, libri, spettacoli, musical, concerti, mostre e format televisivi. E’ stato un vulcano di idee e di realizzazioni. Una tale fioritura non si è mai potuta contenere in una semplice “carriera”, che di solito si snocciola nella vita di tanti politici. Le postazioni ufficiali e i riconoscimenti istituzionali per Gianni sono stati al di sotto delle sue potenzialità e qualità. Non se ne è doluto più di tanto. Perché sapeva bene che, infondo, parte della sua persona stava “altrove”; nei grandi spazi di una fantasia appagante e disincantata; al riparo delle bassezze che la rincorsa al potere impone.
Lampi di sdegno li aveva solo quando l’intrigo premiava l’incompetenza, l’approssimazione, la furbizia vuota, la pura chiacchiera e quando ciò accadeva, anche nel campo della sinistra, lo sdegno si accompagnava alla rabbia: in lui, così gentile e sereno, di assai breve durata.
Infine, Gianni è stato anche un bravissimo amministratore: preciso, puntuale,maniacale nell’onestà ed espertissimo nelle procedure.
Segnava tutto in un piccolissimo quaderno: il numero delle delibere, gli articoli del regolamento, i tempi delle decisioni amministrative. Si vantava, a ragione, di essere molto più preparato degli assessori cosiddetti tecnici, che magari tendevano a considerarlo solo un poeta. Quale poeta! Diceva: ne so molto più di loro. Era come un vezzo, che si fondava, tuttavia, su una idea precisa del buon amministratore, che per lui doveva sempre saper combinare specialismo e visione politica. Ricordo, a questo proposito, quanto fu felice il giorno in cui Rutelli, che aveva capito benissimo il suo talento , gli chiese di assumere come assessore alla cultura anche le deleghe al personale.

Tuttavia, Gianni per me è stato soprattutto l’amico di una vita. La persona con la quale ho avuto la maggiore sintonia umana e intellettuale. Con la quale ho lavorato tanto, e in particolare ho riso di più.

Di un riso continuo,contagioso, irrefrenabile che scaturiva dalle più piccole cose. La verità è che, impegnati spesso in liturgie solenni, non riuscivamo a prendere troppo sul serio noi stessi. La cifra del nostro linguaggio era il paradosso, il surreale, il grottesco, il dissacrante. Era il nostro modo di divorare la vita che abbiamo amato immensamente. Di renderla un divertente palcoscenico animato da sentimenti radicali e sinceri, da avventure divertenti e giocose: noi, ambedue, al fondo così esposti al dolore e alla ferite della vicenda umana. Così consapevoli dell’assurdità e del mistero del nostro passaggio terreno.

Gianni si appassionava a tutto; da tutto si faceva coinvolgere e su ogni nuovo progetto ci metteva l’anima. Ma, al fondo, covava un filosofico distacco. La dolce consapevolezza che tutto questo trambusto, serviva anche per non ascoltare troppo forte la voce che ricorda l’inevitabile fine di ogni cosa che si ama.

Mi ritornano in mente, oggi, le nostre bizzarre avventure: quando lo vidi la prima volta, arringare i malati del S.Maria della Pietà con un colbacco di visone in testa; o quando mettemmo la “Nuova Compagnia di Canto Popolare” dentro un’ambulanza per portarli rapidamente a suonare alla feste della gioventù di Ravenna; o quando facevamo volare il suo cane nel corridoio di casa sua dove correva vibrandosi nell’aria tanto lo avevamo eccitato; o quando scrivevamo insieme i suoi interventi come quello per il funerale di Pasolini; o quando facemmo da pacieri tra Gino Paoli e Ornella Vanoni, che avevamo unito in concerto per la prima volta; o quando con due soldi in tasca partimmo per Venezia per andare a difendere “Novecento” di Bertolucci.
Potrei continuare all’infinito.

Eppure,alla fine la cosa più vera che sento di lui non è come ha attraversato la gioia; ma come ha attraversato il dolore.
Gianni, che era insistente fino alla petulanza sulle piccole cose, si è dimostrato un gigante per come ha attraversato la sua malattia. Lunga, senza lamento. Durante la quale è rimasto produttivo. Più produttivo che mai. L’ha attraversata con la saggezza di un filosofo e l’occhio innocente di un bambino che fa finta di credere che la morte non arriverà mai. E invece sapeva che sarebbe arrivata. Ma è voluto apparire distratto, per andarsene in punta di piedi, con discrezione e gentilezza.

Non disturbando gli altri.

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