Franco Fortini scrisse il suo testo biografico più incandescente nel giugno del ’67, appena dopo la guerra dei Sei giorni, e si intitolava, quella memoria di lui nato Lattes da padre ebreo e battezzato valdese, I cani del Sinai, titolo ambivalente, come spiegava introducendolo: quella immagine vuol dire sia che nel Sinai in realtà non ci sono cani sia, più fondatamente, un sinonimo di correre in soccorso del vincitore.

Fortini ritorna agli anni della sua educazione in rapporto e in corto circuito con il suo presente sotto la pressione che su di lui fanno da un lato l’opinione di chi gli è vicino dal punto di vista ideologico e dall’altro suoi parenti ebrei che vorrebbero un sostegno all’azione dei carri con la stella di Davide comandati da Moshe Dayan.

Fortini non si sottrae ma analizza criticamente, discerne, una materia per lui così personalmente toccante e arrischiata: quello che gli preme intendere e sottolineare è il pericolo stesso di oggi per cui non gli interessa un prendere parte quale a priori o , peggio, metafisica dei buoni e dei malvagi. Di quella, di ogni guerra interroga invece il pericolo capitale e dunque non solo la perdita non resarcible di vite umane ma anche la disumanizzazione progressiva tanto di chi viene offeso quanto di chi offende. Gli hanno insegnato le Scritture che la spada ferisce e sanguina da due lati: scrive nel ‘67, sa quale strage incommensurabile stia alle spalle degli ebrei ma si sottrae al coro di quanti vedono negli arabi, indistintamente, dei sostenitori del nazionalismo aggressivo di Nasser e non invece masse di sfruttati e di esseri umiliati, senza voce e destino.

Preme a Fortini di salvaguardare sempre la zona di umanità comune fra le parti in conflitto: ai suoi occhi chi dà il primo colpo, che oggi è l’aggressione criminale di Hamas, rende subito possibile la rappresaglia indiscriminata, e viceversa. Manzoni ha insegnato a Fortini il principio della corresponsabilità di chi fa il male, che induce la vittima a farlo.

Come Fortini, sarà Primo Levi a richiamare la terribile diagnosi del Manzoni ne I sommersi e i salvati.

Chi guardi oggi ai fatti di Gaza deve constatare per la ennesima volta una dinamica tanto antica da apparire purtroppo fatale.

A distanza dal 1967 Fortini tornerà a discorrerne dopo i massacri di Sabra e Chatila, nel 1982, e poi per la Prima Intifada, con questa «lettera agli ebrei italiani» uscita su il manifesto il 24/5/1989 – nel momento in cui il popolo palestinese si ribella in maniera cosciente al suo stato di umiliazione e segregazione: si tratta di un testo che nulla ha perso della sua radicalità e del suo accorato dolente spirito di verità.