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«Un disastro figlio del mito della crescita»

«Un disastro figlio del mito della crescita»

Intervista L'oceanologo Aguirre Munoz: «È una specie opportunista e per questo è paradigmatica della crisi del capitalismo tardivo che stiamo vivendo, il cambiamento climatico ci sta presentando il conto»

Pubblicato più di un anno faEdizione del 3 agosto 2023

«Il sargasso è arrivato per restare» scriveva nel 2017 l’oceanologo Alfonso Aguirre Muñoz dell’arrivo massivo dell’alga nel saggio Il sargasso nei Caraibi messicani: dalla negazione e il volontarismo alla realtà. Dottore in Studi Regionali e Sviluppo Sostenibile, Muñoz è stato direttore generale del Gruppo di Ecologia e Conservazione delle Isole del Messico e ha avuto la possibilità di testimoniare sul campo l’inizio dell’espansione anomala del Sargasso nel Golfo del Messico durante un progetto di ripristino della fauna avicola compromessa dallo sversamento di petrolio della Deepwater Horizon. Il ricercatore riporta l’attenzione sulla necessità di affrontare il fenomeno al di là del giudizio di bene e male estraneo ai processi della natura e su una rilettura radicale tanto dell’ambiente in trasformazione quanto, a livello più simbolico, di un input che potrebbe innescare un reale cambio nel modello produttivo e sociale.

Muñoz, cosa sappiamo delle cause di espansione del sargasso?

È un fenomeno complesso. Le cause immediate hanno a che vedere con l’aumento di un grado delle temperature medie avvenuto negli ultimi 40 anni nei nostri oceani e con i nutrienti derivati dall’attività umana e dalle polveri trasportate dal Sahara. A queste però dobbiamo aggiungere variabili instabili come la corrente del Niño, che si teme possa intensificare il problema per la sua tendenza a riscaldare le acque.

E sulle possibili soluzioni?

Da una parte bisogna dare risposte immediate alle popolazioni locali, che potrebbero subire conseguenze drammatiche a vari livelli, dall’altra però è fondamentale uscire da una logica emergenziale che pur di salvare il settore turistico così com’è cerca di tappare un buco facendone altri. Impiegare lavoratori precari per togliere il sargasso dalle spiagge con i trattori è un atto disperato che non risolve il problema, anzi, lo peggiora, provocando un impatto di Co2 maggiore di quello emesso dall’alga stessa. Il Governo sta concentrando le energie sul possibile sfruttamento del sargasso in ambiti industriali, ma secondo me è un errore dal momento che non c’è una richiesta spontanea da parte del mercato. Credo che invece si debba investire nella ricerca per capire bene il fenomeno in atto.

Il sargasso sembra una sorta di risposta immunitaria della natura. Possiamo considerarlo paradigmatico della crisi ambientale in atto?

È una specie opportunista. Fiorisce e cresce rapidamente, si decompone emettendo gas serra ed essendo quasi pura cellulosa è poco interessante dal punto di vista industriale. Insomma, è un disastro. Ma non si preoccupa di quello che noi pensiamo e della prospettiva che il paradiso dei Caraibi possa tramontare. Per questo è paradigmatica della crisi del cosiddetto capitalismo tardivo e del mito della crescita che stiamo vivendo. Il filosofo Habermas riflette sul fatto che non riusciremo a trovare soluzioni collettive se non proviamo una commozione collettiva. Io spero che il sargasso, con il suo impatto, possa fungere da unificatore e creare i presupposti per uno sforzo comune.

Porterà a ripensare il turismo di massa nei Caraibi?

Tutto quello che sta avvenendo con il cambiamento climatico rappresenta un segno inequivocabile di un modello sociale che ci presenta il conto. Chi viene ai Caraibi cerca un’esperienza di intensità che non ha nulla a che vedere con la sostenibilità. Ripensare questo modello, per esempio in termini di un contatto vero con le comunità, come avviene nei villaggi Zapatisti o attraverso permanenze lunghe che, grazie allo smart working, permettano di eliminare parte del traffico aereo, ha a che vedere con un cambio di valori quasi filosofico che non avverrà tanto rapidamente.

Forse dovremmo prima arrivare a uno sguardo decolonizzato?

Nei Caraibi convivono lingue e culture diverse e la loro divisione è frutto della distinzione storica dei naviganti più che dell’oceanografia. La colonizzazione qui oggi ha molto a che vedere con i grandi capitali che vengono da fuori e in questo senso forse il sargasso ci farà il favore di scoraggiare nuovi investimenti. La cosa grave sarebbe se il Governo cercasse di ovviarvi con i sussidi invece di puntare su un altro modello per impedire un turismo di alto consumo.


È per questo che è importante una sinergia internazionale nell’affrontare il problema?

Infatti. Le diverse traiettorie che si incontrano in queste aree non sono facili da unire e questo rende la sfida doppiamente complessa e anch’essa paradigmatica di come le nazioni potrebbero affrontare i problemi concreti attivando delle governance di prossimità più efficaci. La capacità dirompente di questo fenomeno è enorme. Non sono catastrofista, ma è chiaro che con il riscaldamento globale eventi simili appariranno in altre zone e non possiamo restare a guardare sperando che passino in maniera quasi religiosa. È molto difficile immaginare una soluzione, ma ho fiducia nella ricerca. Come diceva Leonardo da Vinci, non si può amare né odiare nessuna cosa se prima non la si conosce.

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