Riusciremo a superare le paure da cui ormai da troppi anni siamo condizionati nelle nostre vite quotidiane? Il mondo là fuori sembra terrorizzarci: vediamo ombre e pericoli ovunque, gli altri sono una minaccia, temiamo di essere aggrediti o uccisi appena usciamo di casa o tornandovi la sera, ogni curva della strada rappresenta una possibile insidia. Gli altri da noi non vorremmo neppure incrociarli, neppure vederli.

Eppure questo nostro angolo di mondo non è forse mai stato così sicuro come lo è oggi, se è vero che negli ultimi trent’anni la criminalità in Italia è letteralmente crollata: gli omicidi, che erano quasi duemila nel 1998, sono oggi circa trecento all’anno; e anche tutti gli altri reati sono in gran parte diminuiti. Ma quindi perché ci sentiamo tanto insicuri? Perché, mentre i reati crollano, la popolazione carceraria invece raddoppia (i detenuti erano circa trentunomila nel 1991 e sono quasi sessantamila oggi)?

Perché vent’anni fa il Parlamento era quasi unanime a favore dell’abolizione dell’ergastolo ed è invece adesso quasi altrettanto unanime in senso contrario? Cosa ci induce a pretendere continuamente l’intervento della legge e a chiederle di essere sempre più severa? Cosa giustifica la cattiveria che pervade l’aria, che ci soffoca?

SONO QUESTE LE DOMANDE che si pone Luigi Ferrajoli nel suo Giustizia e politica. Crisi e rifondazione del garantismo penale, appena uscito da Laterza (pp. 370, euro 30). O meglio: sono queste le domande da cui muovono le sue riflessioni. Perché le risposte, in quanto tali, tutto sommato le troviamo subito, già nella prima pagina del libro: «È difficile non vedere in questi straordinari mutamenti l’effetto di una riduzione delle garanzie del corretto processo, quali limiti all’arbitrio punitivo, e del declino del garantismo nella cultura sia del ceto politico che del ceto giudiziario.

Le cause della regressione politica, culturale e morale che in tali cambiamenti si manifestano sono molteplici: l’abbassamento della qualità delle classi di governo; il clima di costante emergenza da esse alimentato; le incessanti campagne sulla sicurezza dirette a terrorizzare l’opinione pubblica onde ottenerne il consenso a inutili inasprimenti di pena; la maggiore durezza, fino alla disumanità, sia delle leggi che dei giudizi; la diffusione, indotta dai populismi, della domanda sociale di punizioni severe e vendicative e la degradazione, da essa segnalata, del senso morale a livello di massa».

Il punto, allora, non è tanto nelle risposte, proprio perché le risposte, a volerle vedere, sono già sotto i nostri occhi: e del resto proprio i dati sulla criminalità basterebbero anche da soli a dare atto di una realtà manipolata e strumentalizzata al di là di qualunque evidenza oggettiva. Il punto è nell’aprire gli occhi: nell’assumere consapevolezza dei problemi, e nel trovarvi rimedio. In particolare, nel capire una volta per tutte quanto sia illusoria la pretesa di espellere la politica dai nostri orizzonti: perché non è con le pene, e quindi con la penalità, che si può pensare di poter prevenire la criminalità, bensì con le politiche economiche e sociali, e con adeguati sistemi di tutela. Lo confermano anche i dati empirici, come giustamente sottolinea Ferrajoli: «Prova ne sia, se ve ne fosse bisogno, la sostanziale stabilità della criminalità negli Stati Uniti nonostante il boom carcerario che nello spazio di mezzo secolo ha visto aumentare di sette volte il numero dei detenuti».

Il fatto è che, delle nostre paure, siamo vittime e responsabili al tempo stesso: un po’ per volta, ci siamo lasciati suggestionare sempre di più dall’idea secondo cui la nostra sicurezza non è, come dovrebbe essere, «la sicurezza sociale, cioè la garanzia dei diritti sociali e perciò la sicurezza del lavoro, della salute, della previdenza e della sopravvivenza», né quella «dalle catastrofi provocate dal riscaldamento climatico e minacciate dalle possibili esplosioni nucleari». No: ci siamo lasciati convincere, alla fine, che sia solo quella «declinata nelle forme dell’ordine pubblico e degli inasprimenti punitivi».

MA È UN’IDEA che a sua volta, in virtù di un orrendo circolo vizioso, serve solo a giustificare i mali, le colpe e le mancanze: «ad assecondare, nell’opinione pubblica, il riflesso classista e razzista della stigmatizzazione dei poveri, dei neri e degli immigrati come virtuali delinquenti», e «per così dire a compensare il sentimento diffuso dell’insicurezza sociale generato dalle politiche di riduzione del welfare e di smantellamento del diritto del lavoro; a mobilitare questo sentimento e questa rabbia contro il deviante e il diverso, preferibilmente di colore ed extra-comunitario».

Insomma: la verità è che sicurezza e diritto penale c’entrano poco, l’una con l’altro, per il semplice motivo che il diritto penale è inidoneo, di per sé, a generare sicurezza. È vero semmai il contrario: quanto più garantiti siano i diritti sociali, intesi come l’insieme delle garanzie dei diritti sociali e dei beni fondamentali di tutti, tanto minore sarà l’intervento del diritto penale. Al «diritto sociale massimo», scrive Ferrajoli, corrisponde il «diritto penale minimo», ed è questo in effetti ciò che il diritto penale dovrebbe rappresentare: un’extrema ratio, una misura solo residuale.

Si tratta di compiere poco meno di una rivoluzione, appunto politica prima ancora che giuridica, e logica prima ancora che tecnica: politica, perché occorrerebbero nuove politiche sociali, orientate alla tutela dei più deboli anziché al disinteresse nei loro confronti (quando va bene); logica, perché bisognerebbe rovesciare la simmetria della guerra nell’asimmetria del diritto (nel senso che la logica del diritto non dovrebbe mai coincidere con quella della guerra, la quale vuole che alla guerra si risponda con la guerra); giuridica e tecnica, perché lo stesso linguaggio legale andrebbe completamente pulito, ripensato, bonificato.

MA POI NON BASTEREBBE ancora: si tratterebbe, a parere di Ferrajoli, di compiere quello che lui stesso, secondo una tesi che aveva già formulato anche prima di questo libro, chiama un «salto di civiltà» tout court, tanto nel diritto quanto nella politica. Vale a dire: di ricomprendere nella nozione di «illecito giuridico» non solo i reati qualificati come tali dal diritto penale ma anche tutti quei crimini definibili «di sistema», e di prendere atto che gli Stati nazionali, da soli, non sono più in grado di fronteggiare tali crimini, costituiti da tutte quelle azioni e quelle omissioni «di carattere genocida perché responsabili della morte, ogni anno, di milioni di persone per fame o per malattie curabili ma non curate». Ciò che Ferrajoli propone, in definitiva, è una forma di «costituzionalismo oltre lo Stato» (una vera e propria «Costituzione della terra»): da un lato attraverso «la trasformazione dell’Onu, secondo il progetto kantiano, in una ‘federazione di popoli’ basata su una ‘costituzione civile’ rigidamente sopraordinata a tutte le altri fonti, statali e internazionali»; dall’altro, attraverso l’istituzione di una giurisdizione globale «non penale» e «di sola verità», sul modello della Commissione per la verità e la riconciliazione a suo tempo istituita in Sudafrica alla fine dell’apartheid, «deputata all’accertamento delle cause dei crimini di sistema, delle relative responsabilità politiche, delle misure in grado di impedirli o di ridurli».

QUALCUNO OBIETTA: sono solo belle parole, solo bei sogni, solo utopie. E certo, il discorso sarebbe lungo e complesso. Ma la forza delle tesi di Ferrajoli è altrove: è nello spirito che le muove, al di là di qualunque critica o adesione. È nel riscatto di un diritto che finalmente non si limiti ad assecondare il fluire degli eventi senza immaginare di poter anche cercare di indirizzarlo; di un diritto che finalmente sappia perfino incarnare ideali, o perfino coltivare sogni o utopie. Di un diritto, in ogni caso, che non si accontenti di sé stesso.