Un campo da gioco necessario contro tutti gli editti del tempo
Bussole Una riflessione a più voci per interrogare il rapporto in mutazione tra la critica e il suo «oggetto» filmico. La diffusione crescente dei cliché, la contemplazione dei discorsi opposti
L’uso del termine critica investe almeno tre ambiti: quello della tradizione filosofica kantiana che si occupa delle condizioni di possibilità dell’esperienza (filosofia critica), quello di una posizione tesa a problematizzare la realtà (posizione critica), quello di una specifica forma del discorso quando si occupa di qualcosa che chiamiamo arte (discorso critico).
Le tre cose sono più collegate di quanto sembri e dire che non ci sia più necessità di critica significa spingersi in una zona pericolosa che fa dell’esperienza qualcosa di irriflesso, della realtà un assioma non modificabile, e dell’opera qualcosa di non traducibile in parole.
È QUELLO che sta accadendo oggi davanti ad una incandescenza del reale che ha abolito la possibilità di ogni pensiero critico, in una forma che espone ovunque teatralmente (tv e social media) un mero conflitto tra cliché, dove il già pensato dell’opinione pubblica diviene interdizione a pensare, e dove l’assolutezza delle credenze è sottratta ad ogni dubbio e perfino alla possibilità di porlo.
La redazione consiglia:
Cinema corpo. La malattia delle paroleMa la critica come ogni pratica va esercitata, contribuisce a formare il gusto e dunque anche ad orientare l’estetica. Se Benjamin pensava che la critica fosse il momento «prosaico» del nocciolo «poetico» dell’opera, grande o piccolo, originale o prevedile questo nocciolo sia, la critica ha il compito di disvelarlo o rilanciarlo, mai eluderlo. Perché in definitiva il gesto critico è anche quello che deve «articolare» il carattere saturo dei discorsi. Isolando la singolarità dell’opera e il mondo poetico in gioco in essa, il gesto critico opera uno scarto, determina un intervallo, e costruisce linee alternative rispetto a quelle date dal senso comune.
Quando Serge Daney si dimette dal suo ruolo di critico televisivo di Libération ponendo il problema della televisione come «occhio tecno-sociale» che non richiede critici ma solo imbonitori, non rinuncia comunque al suo ruolo di critico. E fonda Trafic. Cambia il suo oggetto, torna al cinema, torna al surplus estetico, ad una eccedenza che chiede la riformulazione o la sperimentazione critica. Costruisce linee di senso alternative rispetto alle quali leggere altrimenti anche il destino delle immagini contemporanee.
C’è solo una differenza di grado non di natura tra l’opera d’arte e la critica, il poetico e il prosaico (su queste stesse pagine Luigi Abiusi è intervenuto in tal senso). Come un film parla del mondo attraverso la mediazione diretta del mondo stesso, che include anche il cinema, così la critica parla dello stesso mondo attraverso l’opera con cui si rapporta. Il concatenamento dei discorsi artistici e critici non può che identificare un continuum abitato dalla domanda di senso dell’artista e del critico (nonché del pubblico).
La redazione consiglia:
Il senso del lavoro culturale, la libertà del linguaggioSI TRATTA solo di capire se questo continuum viene a costituirsi secondo una corrispondenza associativa e muta di cliché, cioè di blocchi di senso e di emozioni talmente codificati da non fare problema, cioè da funzionare come meri dispositivi anonimi, oppure se il continuum è animato da fratture, differenze, per cui la domanda originale di senso che l’opera pone richiede una risposta critica ed interpretativa altrettanto inventiva.
SE LA CRITICA è o dovrebbe essere una buona pratica ed un nobile costume (che in tal senso prevede esercizio) lo è nel senso che il discorso critico contempla la partecipazione ad un gioco comune con gli altri discorsi critici. L’insieme di tali discorsi definisce il campo in cui giocare. È solo all’interno di un tale campo che il discorso critico – in senso foucaultiano – giunge a visibilità. Tale campo non preesiste agli atti che vi si inscrivono, alla presenza dei giocatori in campo e al loro differenziarsi anche in posizioni contrapposte.
Ed ecco che la critica rivela la sua virtù maggiore (che oggi sembra dimenticata): contemplare nel suo stesso esercizio la presenza di discorsi critici distinti ed anche contrapposti. Il grande critico sa che questi discorsi non limitano la forza del suo, ma gli danno senso, perché contribuiscono a costruire e a dare consistenza a quel campo senza il quale il suo stesso discorso sarebbe mero flatus voci.
Nella critica la verità non contrasta con la pluralità: da dove la portata etica e pedagogica di tale pratica. Perché non va dimenticato che la critica – come ricorda Terry Eagleton in The Function of Criticism – è una invenzione tutta europea, maturata durante l’Illuminismo e avente come obiettivo quello di opporsi agli editti del potere assoluto. La critica è il discorso anti-editto per eccellenza, ciò di cui oggi abbiamo più bisogno.
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