«Ma cos’è il tempo del per gli alberi?», si chiede Tiziano Fratus di fronte a un grande larice venuto al mondo almeno mille anni fa e che ha resistito alla ferocia della natura, indifferente ai camminatori e ai venti gelidi. Nella sua esistenza, scrive l’autore, ha certamente incontrato più alberi che persone, pensando al pittore Cézanne, cercando di esprimere in poesia la tavolozza dei sensi e delle emozioni, perdendosi nelle foreste ombrose per vivere l’horror silvosus, un’immersione profonda «nei boschi più remoti alla ricerca di una dimensione antica, solitaria, sulfurea, magica…».
A

lberodonti d’Italia (Gribaudo, pp. 224, euro 16,90) è l’ultimo, lirico, «atlante letterario» di questo scrittore selvatico e buddista agreste, che verrà presentato nella cornice del Salone del libro di Torino domenica 12 con Antonio Riccardi.
Gli «alberodonti» sono quei personaggi vetusti, circondati dal verde (o anche radicati nelle nostre città) che portano addosso, sulla loro corteccia, nelle loro nodose estensioni, nei rami bernoccoluti una lunga storia di piante e animali. Sono monumenti viventi e nel libro Fratus ne racconta cento con la sua consueta lingua empatica, dialogante, impastata nella vita vissuta, nella leggenda e nel vigore indistruttibile delle fronde.

Si viene così a conoscenza del Cedro dei corvi parlanti (Montalenghe, Torino) ma anche della magnolia del santo (Padova) o della quercia urlante (Varese ligure) che ricorda l’albero del film di Tim Burton Il mistero di Sleepy Hollow con la sua misteriosa cavità da cui possono uscire cavalieri senza testa. Gli ulivi senescenti, invece, in quel di Puglia «si spalancano, si cavano, si infinocchiano, si cavernizzano, si dinoccolano». Sono presenze mutanti, che si assestano strada facendo, con l’accogliere su di loro millenni di polvere, acquazzoni e sole cocente.