«Un altro domani», la violenza contro le donne è un problema che riguarda gli uomini
Cinema Il documentario di Silvio Soldini e Cristina Mainardi è un'«indagine» tra relazioni tossiche. Storie, vissuti, voci di chi lavora coi maltrattanti per una nuova consapevolezza
Cinema Il documentario di Silvio Soldini e Cristina Mainardi è un'«indagine» tra relazioni tossiche. Storie, vissuti, voci di chi lavora coi maltrattanti per una nuova consapevolezza
In una città, nella sera che scende fra tetti, antenne, lampioni e insegne, spiccano alcune finestre illuminate. È, quella luce, il confine tra un fuori e un dentro dove può esserci di tutto, rapporti felici o relazioni tossiche, quindi un inferno.
Comincia con questa immagine fortemente simbolica Un altro domani, documentario diretto da Silvio Soldini e scritto dal regista con Cristiana Mainardi. Il sottotitolo, Indagine sulla violenza nelle relazioni affettive, spiega in che cosa si scava, che cos’è, come si entra e come si può uscire da un rapporto violento, prima che sia troppo tardi.
PRIMA di arrivare a un punto di non ritorno, la relazione violenta semina infiniti segnali. Come riconoscerli? Come far sì che quel percorso si arresti? A queste domande cerca di rispondere Un altro domani con testimonianze di donne, magistrati, forze dell’ordine, autori di violenze che hanno intrapreso una terapia, volontarie del Cadmi (Casa delle donne maltrattate di Milano), terapeuti del Cipm (Centro italiano per la Promozione della Mediazione).
Il ritenersi padrone di una donna dentro una relazione, e quindi in diritto di maltrattarla, picchiarla, nasce da una cultura patriarcale secolare. Non la si cambia in pochi anni e non solo in modo repressivo, ma nel frattempo si può agire sui comportamenti. In quest’ottica, nel 2020, è nato il Protocollo Zeus che permette al questore di emettere un ammonimento con cui si intima al soggetto di non reiterare quelle condotte e lo si informa che può sottoporsi a un programma di prevenzione. E’ qui che si si assiste, dentro e fuori dal carcere, alle sedute degli operatori del CIPM con gli uomini. C’è chi cerca di giustificarsi, chi si tormenta, chi dice che non voleva fare del male, tutti hanno lo sguardo smarrito, si dicono consapevoli di avere sbagliato, di volere cambiare, «Perché finora ho sparso solo merda», «Perché ho un figlio e non voglio perderlo», ma riuscirci significa intraprendere un percorso il cui primo atto è riconoscere la propria parte oscura, la propria violenza, il secondo è imparare a bloccarla sul nascere.
Paolo Giulini, presidente del Cipm, dice: «I nostri non sono interventi terapeutici. Non curiamo nessuna patologia. Lavoriamo con queste persone per renderle consapevoli degli effetti delle loro azioni. Nell’80% dei casi le molestie si fermano, bloccando il rischio di escalazione».
Perché ormai lo sappiamo, e lo conferma anche Fabio Roia, presidente vicario del tribunale di Milano: «Il problema della violenza sulle donne non è delle donne, ma degli uomini. Sono loro a dover cambiare».
PER CONTRO, anche le donne hanno bisogno di un’alfabetizzazione degli affetti. Alcune testimoni, ex vittime di maltrattamenti, raccontano di aver impiegato anni a riconoscere i segnali allarmanti «Perché lo amavo e lui diceva di amarmi», «Perché speravo di cambiarlo». Altre narrano l’incubo di essere perseguitate da un ex che non picchia, ma si infila nella quotidianità con una pervicacia talmente ossessiva da essere arrivate a sperare che lui le malmenasse per poterlo denunciare, perché qui sta l’altro problema, che le botte reali le vedi e quindi hai una prova, le minacce psicologiche non le puoi dimostrare, e quindi puoi solo sperare che qualcuno ti ascolti. Come dice Cristina Carelli, coordinatrice del Cadmi, «Con la denuncia bisogna costruire un sistema di protezione e consapevolezza attorno alla donna, non basta chiederle di denunciare».
Se è vero che la denuncia da sola non risolve il problema alla radice, non cambia la cultura, può evitare di arrivare a un punto di non ritorno, l’omicidio. Emblematiche sono le storie di Francesca e Giovanna. La prima a cinque anni ha visto il padre ammazzare la madre, alla seconda il marito ha ucciso una figlia, una bambina. Entrambe hanno voluto incontrare tempo dopo l’omicida, per capire se c’erano tracce di pentimento. Hanno trovato solo silenzio, nessuna consapevolezza di ciò che avevano fatto. Chiusi dentro il loro gesto di possesso e di morte.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento