Internazionale

Ucraina paese in guerra, ma niente default: i creditori accettano un taglio del 37%

Ucraina, la sede della banca centrale (Ap)Ucraina, la sede della banca centrale – Ap

Crisi ucraina Kiev rinegozia 23,6 miliardi di debiti tra bond e interessi. È la più grande ristrutturazione di un debito dopo Grecia e Argentina, ma che differenza

Pubblicato 2 mesi faEdizione del 6 settembre 2024

Il fatto risale allo scorso 23 luglio: l’Ucraina, assistita nelle trattative dalla banca franco-britannica Rothschild & Co e da un team dello studio legale statunitense White & Case LLP, è riuscita ad ottenere il via libera alla ristrutturazione del suo debito offshore, quello detenuto, per intenderci, dai colossi della finanza mondiale. BlackRock, PIMCO, Fidelity, Amundi, Amia Capital, tra gli altri, certamente i più importanti. Parliamo di 19,67 miliardi di dollari emessi in eurobond, che salgono a 23,6 se si calcolano gli interessi finora maturati.

Il contenuto dell’accordo, negoziato per tre giorni e tre notti a Parigi? Nuovi titoli, dal valore nominale più basso, andranno a sostituire quelli vecchi. In gergo si parla di swap (scambio) e haircut (sforbiciata, grosso modo), significa, nel nostro caso, che i creditori hanno accettato una svalutazione del 37% dei titoli che avevano in mano. Per gli interessi si seguiranno invece due vie: alcuni bond legheranno il loro rendimento all’andamento dell’economia, altri inizieranno con un 1,75% (a partire dal 2025), che salirà fino al 7,75% nel 2029. Bene, a parte lo strano incidente d’auto in cui è incappato, rimanendo fortunatamente illeso, il capo-negoziatore ucraino Yuriy Butsa, che tornava a Kiev dopo essere atterrato in Polonia.

Ma facciamo un passo indietro. L’Ucraina, a seguito dell’invasione russa nel febbraio del 2022, aveva ottenuto una moratoria di due anni sui pagamenti, scaduta lo scorso 1° agosto. Tutti i media del mondo, compresi quelli italiani, da qualche mese insistevano su quello che potremmo chiamare il «dilemma di Kiev»: trovare un accordo con i creditori o dichiarare default. Come se il paese non fosse già di fatto fallito. La stessa ristrutturazione del debito è in fondo un’ammissione di insolvenza. Kiev non ha più un bilancio autonomo, né può finanziarsi sul mercato. Il suo fabbisogno finora è stato soddisfatto solo grazie ai prestiti di paesi amici come Canada, Francia, Germania, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti, di grandi gruppi finanziari americani ed europei, nonché di istituzioni come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale (insieme hanno già dato 85 miliardi di dollari).

Proprio il Fmi ha preteso che si arrivasse alla rinegoziazione delle obbligazioni detenute dai fondi già citati. Era una delle clausole del programma di assistenza da 15,6 miliardi di dollari concordato nel marzo dello scorso anno. Da parte sua, la Commissione europea aveva invece dichiarato: «E’ fondamentale che l’Ucraina e i creditori internazionali trovino un accordo equo sui parametri della ristrutturazione, che è essenziale per ripristinare la sostenibilità del debito». «Accordo equo», dunque, ma soprattutto niente programmi di aggiustamento lacrime e sangue, come quelli imposti ad altri paesi, con Ue e Stati Uniti che, a latere, si sono impegnati anche a finanziare una parte del deficit di bilancio previsto per quest’anno (43 miliardi di dollari). Tradotto: Kiev deve sostenere lo sforzo bellico, non può avere altri grattacapi. Tutta un’altra storia rispetto alla crisi greca del decennio scorso, quando Draghi arrivò a chiudere il rubinetto della liquidità alle banche di quel paese, o alla crisi argentina.

Ma tant’è. Negli ultimi mesi il governo ha provato in tutti i modi a rastrellare quattrini per rafforzare l’esercito. Ha venduto altri pezzi dell’industria di stato, ha alzato le tasse alla popolazione. Ora potrà contare anche su un risparmio di 11,4 miliardi di dollari. Poco meno dei 12 miliardi di aumento della spesa militare previsto per quest’anno, che già adesso fa quasi la metà dell’intera spesa pubblica nazionale (37% del Pil). La guerra è sofferenza per le popolazioni, ma anche occasione di affari per ristretti gruppi finanziari e industriali, che nel nuovo capitalismo si compenetrano fino alla confusione degli uni con gli altri. Quei gruppi che a Kiev con una mano danno i soldi in prestito e con l’altra forniscono bombe.

Tutto a posto, quindi? Beh, si potrebbe arguire che i problemi sono solo rimandati. La guerra non va certamente bene per Kiev mentre la sua economia, crollata del 30% dopo l’invasione russa, è ben lungi da un recupero delle posizioni di due anni fa, nonostante il rimbalzo dell’anno scorso (+5%). Ci sono poi i danni ambientali del conflitto, che impattano sul settore agricolo (compromesso il 20% della superficie coltivabile), per non parlare della distruzione di tante infrastrutture logistiche ed energetiche.

Pensare, in queste condizioni, che la partita con i creditori sia finita qui è pura follia. Dopo la guerra, accanto alla questione della ricostruzione (un affare da 500 miliardi di dollari, per ora) tornerà quella della solvibilità di un paese distrutto. Sul cui groppone potrebbero esserci anche i 50 miliardi garantiti dai profitti dei beni congelati della Russia.

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