L’annullamento della legge elettorale Calderoli, operato dalla Corte costituzionale dieci anni orsono, con la sentenza numero 1 del 2014, merita di essere ricordato non soltanto perché sanò una delle più gravi violazioni mai subite dalla Costituzione, ma anche per le modalità attraverso cui fu realizzato.

Vale la pena evidenziare, anzitutto, il contenuto della legge, costruita intorno a una forzatura così marcata dell’esito elettorale da renderla incompatibile con la democrazia. Una vera e propria «porcata», come ebbe a qualificarla il suo stesso autore, il leghista Roberto Calderoli (da cui l’imperituro nomignolo di Porcellum, affibbiatole da Giovanni Sartori). Basti ricordare che la formula elettorale, pur a base proporzionale, prevedeva l’assegnazione del 54% dei parlamentari alla lista o alla coalizione che avesse ottenuto il maggior numero di voti, senza che fosse stabilita una soglia minima di consensi da raggiungere affinché “scattasse” il premio (quel che oggi vorrebbe incostituzionalmente replicare il progetto governativo sul premierato). Un sistema senza pari nel mondo democratico, perché rivolto, in ultima istanza, a produrre con matematica certezza una maggioranza parlamentare assoluta a prescindere dall’esito delle elezioni.

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Si pensi a quanto accaduto nel 2013, quando le votazioni produssero tre poli dalla forza similare: il centrosinistra al 29,55 per cento, la destra al 29,18 e il M5S, un po’ più indietro, al 25,56. Ebbene: per uno scarto di appena 125.793 voti, il centrosinistra ottenne 340 seggi alla Camera, contro i 124 andati alla destra. All’interno della coalizione vincitrice, il Pd ottenne il 25,43 per cento dei consensi: eppure, nonostante le 45.372 schede in meno del M5S, conquistò 292 deputati, contro i 109 andati ai pentastellati. Difficile immaginare una manipolazione più clamorosa: di fatto, il Porcellum garantì al voto degli elettori del Pd un valore triplo rispetto a quello assegnato al voto degli elettori del M5S, in sfacciata violazione dell’articolo 48 della Costituzione, per il quale tutti i voti sono uguali.

A FRONTE di una violazione della Costituzione di tale portata (e, peraltro, già verificatasi alle elezioni del 2006 e del 2008), si ergeva il problema di come porre la questione alla Corte costituzionale. Nel nostro sistema non è previsto che i cittadini possano ricorrere direttamente al giudice delle leggi. Le regole richiedono che vi sia un previo contenzioso di merito innanzi ai giudici comuni, che veda tra loro contrapposte due parti e debba essere risolto attraverso l’applicazione di una legge di dubbia costituzionalità: un’ipotesi irrealizzabile nel caso della legge elettorale, dal momento che la trasformazione dei voti in seggi esaurisce i propri effetti all’interno dell’istituzione parlamentare. Come sosteneva la dottrina dell’epoca, la legislazione elettorale si colloca in un «cono d’ombra» che la giustizia costituzionale non è in grado di «illuminare».

Se non fosse che, oltre all’attività di risoluzione del contenzioso, spetta alla magistratura altresì il compito di risolvere giudizi di natura differente, rivolti ad accertare, su iniziativa degli interessati, la configurazione giuridica di una loro posizione soggettiva. Ed è proprio grazie all’intuizione di attivare tale attività di accertamento che un piccolo gruppo di avvocati – guidati dalla sensibilità democratica di Felice Besostri, Aldo Bozzi e Claudio Tani – è riuscito, dieci anni orsono, a forzare il sistema, inducendo infine la Corte costituzionale a «illuminare» anche la materia elettorale.

L’IDEA fu di ricorrere ai giudici ordinari chiedendo loro di accertare la compatibilità con il dettato costituzionale del diritto di voto così come configurato in capo ai ricorrenti dal Porcellum, ben sapendo che tale accertamento implicava il necessario coinvolgimento della Corte costituzionale. Gran parte dei commentatori criticò l’iniziativa, sottolineando che quello richiesto ai giudici era, di fatto, un giudizio fittizio, proposto al solo scopo di accedere alla Consulta (una sorta di accesso diretto camuffato); e su questa stessa posizione si attestarono il Tribunale e la Corte d’Appello di Milano, rifiutando di dar corso alla questione di incostituzionalità. Di segno opposto fu invece la sorprendente decisione della Corte di Cassazione, che, forte anche del sostegno della procura generale, decise coraggiosamente di attivare il giudice delle leggi.

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LA SENTENZA che ne scaturì sancì l’incostituzionalità del Porcellum, in quanto strutturato in modo «tale da determinare un’alterazione del circuito democratico definito dalla Costituzione, basato sul principio fondamentale di eguaglianza del voto», con l’importante precisazione che la legge elettorale può agevolare la formazione di una maggioranza assoluta, ma non assicurarla, pena il rischio di produrre «una diseguale valutazione del “peso” del voto “in uscita”, ai fini dell’attribuzione dei seggi».

Ragionevolmente, la Corte costituzionale si premurò di precisare che l’incostituzionalità della legge elettorale non comportava altresì l’incostituzionalità del parlamento con quella legge eletto, dal momento che non possono prodursi «vuoti» nella vigenza dei supremi organi costituzionali (secondo il principio fondamentale della continuità dello Stato); irragionevolmente, omise tuttavia di prevedere che la legge annullata non avrebbe più potuto essere applicata – oltre che, com’è ovvio, per regolare le successive elezioni – nemmeno per procedere alla convalida degli eletti in sede parlamentare.

In tal modo, sovvertendo la ratio stessa del giudizio innanzi alla Consulta, la legge incostituzionale continuò a ricevere applicazione, lasciando immutata l’assegnazione del premio al centrosinistra (lo stesso che poi, proprio approfittando del premio, provò con Renzi a cambiare la Costituzione).

Purtroppo, tra i protagonisti di questa straordinaria vicenda, Felice Besostri non potrà oggi celebrarne il decennale: coincidenza vuole che proprio questo pomeriggio riceva a Milano l’estremo saluto da parte di familiari e compagni.