Lo squilibrio tra i poteri colpisce a morte la democrazia
Premierato Chi oggi sta proponendo di rafforzare la stabilità dei governi con l’elezione diretta del presidente del Consiglio non si preoccupa di assicurare la solidità del legislativo
Premierato Chi oggi sta proponendo di rafforzare la stabilità dei governi con l’elezione diretta del presidente del Consiglio non si preoccupa di assicurare la solidità del legislativo
Ce lo insegnano i classici: l’equilibrio tra i poteri è ciò che evita la degenerazione delle forme di governo. Quando la democrazia organizzata si affida all’«uno» diventa inevitabile la caduta nell’oclocrazia, ovvero nella demagogia, oppure nell’autocrazia.
D’altra parte, proprio la naturale propensione ad esondare di chi esercita il potere è a fondamento della divisione dei poteri, con il corollario scolpito nella formula «solo il potere arresta il potere» (Montesquieu). La ricerca di un equilibrio tra gli organi costituzionali è una «legge eterna», che deve essere sempre tenuta presente.
L’equilibrio è ancora oggi la regola di fondo che qualifica i diversi tipi di democrazia. Da interpretare in modo ancor più rigido (come «separazione» dei poteri e non solo «divisione») nei casi di quelle forme di governo che scelgono l’elezione diretta del vertice dell’esecutivo. Così, può dirsi per il modello topico, quello americano, la cui collocazione tra le forme di governo democratiche è indiscusso, ma la cui vitalità è assicurata se e sin tanto che permane la cultura dei check and balance.
È il Congresso degli Stati uniti – per non parlare degli altri poteri, giudiziari e territoriali – l’organo che «arresta il potere»: in grado di contrapporsi alla persona scelta dal popolo, senza remore e senza rischi di essere sciolto. Il presidente degli Stati uniti, che pure da alcuni è ritenuto l’uomo più potente al mondo, non è in grado di imporsi al «suo» Congresso. Che questa sia la regola aurea della democrazia americana (meglio: dei sistemi democratici tout court) lo dimostrano tutti gli altri casi di elezione diretta del Capo che non prevedono solidi contrappesi. Basta pensare a molte fragili repubbliche presidenziali sudamericane, ovvero alle diverse forme di presidenzialismo autoritario, da quello turco a quello russo. In tutti questi ultimi casi non può parlarsi di democrazia.
D’altronde, la ricerca di un equilibrio tra i poteri investe ogni tipo di forma di governo. Anche volgendo lo sguardo all’altro modello topico, quello parlamentare, si avverte il rischio di una possibile alterazione a favore di un potere sugli altri. Quando in Assemblea costituente fu approvato il ben noto ordine del giorno Perassi, il richiamo alle misure di razionalizzazione della forma di governo parlamentare venne espressamente formulato in considerazione della necessità di evitare la degenerazione dell’assemblearismo, ovvero il dominio di un potere sugli altri.
Vorrei a questo punto porre una semplice, ma credo ineludibile, domanda a tutti coloro che oggi ritengono di voler modificare gli equilibri della nostra forma di governo rafforzando la stabilità dei governi tramite l’elezione diretta del presidente del Consiglio: ci si è sufficientemente preoccupati di assicurare la solidità degli altri poteri, al fine di evitare la possibile degenerazione?
Ma ancor prima c’è da chiedersi se il nostro attuale asseto dei poteri sia in equilibrio.
Le risposte ai quesiti posti mi sembrano di immediata evidenza. Per quanto riguarda lo stato attuale, non da oggi ma da circa trent’anni, assistiamo al progressivo indebolimento dell’organo della rappresentanza. Se c’è un potere debole che dovrebbe essere rafforzato per ritrovare un equilibrio di sistema questo è il potere legislativo. Dunque, un riformatore illuminato dovrebbe porsi anzitutto il problema di restituire i poteri perduti al parlamento, ponendo mano ad una serie di riforme che da tempo attendono invano.
Ne indico tre in termini puramente esemplificativi. Il passaggio dalla deformazione del «monocameralismo alternato» ad una razionalizzazione del sistema parlamentare entro una cornice di «monocameralismo a garanzia proporzionale»; l’abbandono di tutte quelle norme – spesso mere prassi – che impediscono il reale confronto parlamentare, operando una sostanziale revisione dei regolamenti delle Camere; la riappropriazione del potere legislativo da parte delle Camere, limitando il dominio del governo sull’attività parlamentare e ponendo fine alla degenerazione della decretazione d’urgenza. Nulla di tutto questo è all’orizzonte.
Quel che ancor più inquieta è che in questa situazione già squilibrata si intende operare il rafforzamento del potere di governo, senza preoccuparsi degli effetti di sistema.
Che non si sia prestata la dovuta attenzione agli equilibri, anzi al necessario riequilibrio, tra i poteri è reso esplicito nella stessa relazione di accompagnamento al disegno di legge costituzionale presentato al Senato. Si richiama una supposta volontà di operare un intervento «minimale», senza avvedersi che, in realtà, rafforzare un potere senza intervenire sugli altri non «permette di preservare al massimo grado le prerogative» del parlamento e del presidente della Repubblica, ma comporta un azzardo, squilibrando ulteriormente la nostra instabile forma di governo.
Più esplicito sul punto, anche se ancor più azzardato, è il disegno di legge firmato dal senatore Renzi, il quale ritiene che si debba passare da una democrazia rappresentativa, che «ha svolto una funzione decisiva nei primi decenni del Dopoguerra», ma che deve ormai essere sostituita da un diverso tipo di democrazia, quella decidente.
Se le parole hanno un senso, dunque, il passaggio da una democrazia pluralista ad una democrazia identitaria. Questa sì senza il problema dei contrappesi, espressamente negando il ruolo degli altri poteri oltre a quello esclusivo del Capo. Ma forse l’enfasi in questo caso ha preso la mano.
A me sembra che chi voglia modificare la forma di governo, tanto più se nella prospettiva di rafforzare il governo, dovrebbe porsi molto seriamente il problema dei contrappesi necessari per evitare quel che Carl Schmitt ha chiamato lo Stato governativo, da temere tanto quanto altre primazie improprie, quello dello Stato legislativo, quello dello Stato giurisdizionale, quello dello Stato amministrativo.
Ma evidentemente la cultura dell’equilibrio non appartiene all’attuale riformatore.
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