Quando una decina di anni fa uscì sui giornali la notizia che Margherita Fenoglio aveva rinvenuto in casa le armi di suo padre, un M1 calibro 30 e una colt 45, si trattò di una conferma. Perché il partigiano Beppe, colui che aveva detto di sentirsi partigiano forever, «partigiano a vita», non l’aveva detto invano confermando il profilo di individuo per cui l’etica è la sua radice etimologica che vale «comportamento, atteggiamento». Dunque, dopo la Liberazione non aveva riconsegnato le armi e non tanto in vista di un possibile riutilizzo (Fenoglio era tutto meno che un nostalgico o un visionario utopista in attesa d’una qualche «ora x») e neanche le aveva serbate per feticismo autoindulgente ma perché testimoniassero, con la loro prossimità domestica, che qualcosa davvero era stato ed era stato una volta per sempre.

Come un gesto presago che, se considerato nella sua semplicità di custodia, immunizzasse da quello che Fenoglio deve avere temuto, vale a dire la vague di ritrattazioni, di palinodie, di cavilli e sfacciate menzogne che nell’ultimo trentennio, spia di un quadro ideologico e politico via via più nefando, ha ipotecato il senso comune della Resistenza fino ad alterarlo e in più di un caso estinguerlo. Perché la Resistenza da tempo non è più parte eminente del discorso pubblico né il suo ricordo portato ad esempio è una priorità istituzionale a parte le occasioni di così ipocrita e smaccata retorica (e qui mi riferisco al 25 aprile degli ultimi anni, con le piazze vuote o indifferenti o ostili talvolta) da liquidarne l’eredità. Sempre più diffusa è l’opinione che partigiani e repubblichini, in quanto morti in una guerra civile, siano da ritenersi uguali, equipollenti i caduti per la libertà e la giustizia sociale e i morti in nome di Benito Mussolini e del Führer.

ANCHE PER QUESTO oggi è necessario leggere Fenoglio muovendo dalla postura etica che ha reso possibili prima la sua scelta di partigiano poi la vocazione di scrittore, laddove il «prima» e il «poi» di una lineare cronologia in tal caso non colgono affatto la simultaneità delle sue decisioni. Infine quel suo gesto per così dire postumo delle armi nascoste duplicava una vicenda molto simile, di un uomo a me molto caro: Wilfredo Caimmi (1925-2009), comunista, partigiano delle Brigate Garibaldi lungo la Linea Gotica, medaglia d’argento al valor militare, tempo prima era stato denunciato e incarcerato ad Ancona per essere ancora in possesso delle armi (scariche e del tutto inutilizzabili) della sua Brigata. Era un pegno di riconoscenza ai suoi compagni caduti nella battaglia di Sant’Angelo di Arcevia (maggio del ’44, lì Wilfredo era un comandante ancora minorenne) ma l’episodio del ritrovamento cadde in un contesto difficile – era il 1990 – per la allora montante canèa «revisionista» o cosiddetta.

Fenoglio resta una mia stella fissa di lettore talmente fedele da non saper preferire né gerarchizzare fra la maniera grande di Johnny, con l’epica dispiegata fino ad essere una Opera-Mondo, e invece la misura ellittica e persino cartesiana che ordisce Una questione privata. Si tratta di estremi entro la cui capienza si dispiega a panoplia una intera esperienza della letteratura il cui tramite è uno stile duttile, così ricco nei toni e nei timbri che Fenoglio ne esaurisce la gamma. Proprio sul principiare degli anni novanta stava imponendosi nel senso comune sia dei lettori sia degli studiosi il convincimento che Fenoglio fosse non soltanto uno scrittore della o nella Resistenza ma uno scrittore classico tout court, perciò capace di liberare il proprio potenziale a cadenza, sempre uguale a sé stesso e però sempre differente. Entrava finalmente alla stregua di un classico nel nostro Canone chi era stato a lungo straniero in patria, ora sottovalutato quale neorealista di seconda fila ora invece stroncato giusto in qualità di narratore della Resistenza (quel che dice Calvino nella prefazione del ’64 a Il sentiero dei nidi di ragno rappresenta l’eccezione ad una sostanziale indifferenza con punte di autentica acredine: vedi la stroncatura celeberrima di Carlo Salinari ai Ventitré giorni della città di Alba su l’Unità). Qui sarà invece decisivo l’apporto ulteriore di nostri studiosi, per esempio Eduardo Saccone, la cui monografia da Einaudi risale al 1988, e poi i più giovani di una generazione almeno, su tutti Luca Bufano e Gabriele Pedullà.

SONO ARRIVATO A FENOGLIO forse per un riflesso d’ordine politico, perché ero un militante di base vicino al Pci e venivo da una famiglia di comunisti e resistenti. Ho letto Il partigiano Johnny a vent’anni nella prima e meritoria edizione a cura di Lorenzo Mondo e lì, di colpo, è cambiata non soltanto la mia visione della Resistenza ma anche e specialmente la nozione di «realismo» in letteratura. In proposito mi avevano formato libri che tuttora ritengo importanti e però segnati da una impronta ideologica anche nella ricezione: Uomini e no di Elio Vittorini, L’Agnese va a morire di Renata Viganò (un altro libro che mi è molto caro), una grande cantata popolare tuttavia al di qua della forma-romanzo, mentre l’esordio di Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, era per me più che altro un romanzo di formazione, qualcosa che sapeva di fiaba moderna, di Conrad e di Stevenson. Non conoscevo allora I piccoli maestri di Luigi Meneghello ma avevo letto delle altre testimonianze: Banditi di Pietro Chiodi (ignoravo che il traduttore di Heidegger fosse stato un insegnante di Fenoglio al Liceo di Alba), Senza tregua di Giovanni Pesce, Il voltagabbana di Davide Lajolo, specchio della generazione fascistissima o anche il notevole La quarantasettesima di Ubaldo Bertoli, un libro di cronaca che insuperato nella nudità e direi necessaria aridità del referto.

Fenoglio, e questo mi sembrò immediatamente chiaro nonostante l’ignoranza e l’incoscienza dei vent’anni, Fenoglio era imparagonabile a tutti costoro da qualunque punto lo si prendesse. Era una questione di clima e di atmosfera sempre incombente, era qualcosa di fisico che dava spessore tridimensionale agli ambienti con una sensazione così forte che rendeva difficile distinguere tra gli interni e gli esterni di quelle pagine: erano luoghi assoluti che assumevano il colore di personaggi che a propria volta ne erano condizionati. Era la magistrale ruvidezza, la vera e propria «mutria» che ne caratterizza tutti i personaggi, la loro sostanziale serietà di fronte ai fatti della vita, non escluse le figure che diremmo comiche o grottesche (e Fulvia stessa, la ragazza come Dafne imprendibile e presente soltanto in absentia, noi ce la immaginiamo una ragazza molto seria, pensosa, volentieri imbronciata).

E POI C’ERA LA LINGUA, le vaste chiazze di inglese elisabettiano, di biblica austerità, scritto a disdoro dell’italico latinorum e, da ultimo, della bolsa retorica del Fascio e c’era la ricchezza di uno stile capace di esaurire il repertorio svariando dall’alto verso il basso, e viceversa, come solo sa dettare l’ispirazione magnanima, l’epica vera e propria. E tutto ciò azzerava d’acchito il radicato pregiudizio, ovviamente negativo, che Fenoglio era appunto un fazzoletto azzurro dei badogliani, un convinto anticomunista, uno che il 2 giugno del ’46 aveva votato monarchia. Ma tutti avremmo prima o poi compreso che Fenoglio è un classico caso di «trionfo del realismo», nella accezione di György Lukács quando tratta di scrittori grandi proprio perché capaci di cogliere il reale in maniera tanto ampia da eccedere d’acchito ogni limite di natura ideologica. Infatti adesione alla realtà e ricerca della verità erano una cosa sola per colui che aveva scritto: «Senza i morti – i nostri e i loro – nulla avrebbe senso». Queste erano le armi di Beppe Fenoglio.

Appuntamento dal 14 al 17 febbraio

«Una parte per il tutto». Per il centenario di Beppe Fenoglio (1922-1963) è il titolo del convegno che si svolge fra Torino (14 e 15 febbraio) e Alba, città natale dello scrittore (16 e 17 febbraio). Organizzato dall’Università degli Studi e dall’Accademia delle Scienze di Torino, dalla Fondazione Ferrero di Alba in collaborazione con il Centro Studi Beppe Fenoglio, il programma è molto ricco e vi si alterneranno relazioni fra cui quelle di Maria Antonietta Grignani, Gian Luigi Beccaria, Valter Boggione, Alberto Casadei, Paolo Zublena, Cesare Pianciola e testimonianze fra gli altri di Antonio Gnoli, Bruno Quaranta, Alessandro Baricco, Wu Ming1, Eraldo Affinati, Giuseppe Lupo, Aldo Cazzullo. Informazioni e link per l’accreditamento (insegnanti, studenti ecc.) ai lavori sono nel sito www.beppefenoglio22.it