Shinya Tsukamoto

Luce e ombra, vita e morte, sono possibilità del tutto incompatibili? Sin dal principio della sua carriera Shinya Tsukamoto ha esplorato le compenetrazioni, gli stadi intermedi, a partire dal celebre uomo-macchina. In Shadow of Fire (titolo originale Hokage), presentato a Venezia nella sezione Orizzonti, il regista giapponese ha declinato questa cifra nella desolante realtà del secondo dopoguerra, dove i personaggi sono assediati da macerie, malattie e follia ma cercano comunque una via, non sempre percorribile, per andare avanti. Abbiamo incontrato Tsukamoto al Lido, dove ha risposto con pacatezza alle nostre domande.

«Shadow of Fire» è l’ultimo film di una trilogia antimilitarista, dopo «Fires on the Plain» (2014) e «Killing» (2018). Ha detto di averlo realizzato come se fosse una preghiera. Può spiegare meglio questo intento?

Fires on the Plain è un film che permette al pubblico di vivere il campo di battaglia come se si trovasse lì, e di sentirne tutto l’orrore. Ho realizzato invece Shadow of Fire con un vero senso di preghiera e di speranza affinché i figli delle giovani generazioni non facciano esperienza della guerra, che non arrivino dunque a vivere ciò che si vede nel film precedente, un rischio purtroppo dietro l’angolo.

Ha lavorato molto sulle luci per caratterizzare lo stato fantasmatico in cui si trovano i personaggi.

L’intera famiglia della donna protagonista è morta e parte della sua casa è stata bruciata. Nelle scene iniziali si trova in un ambiente buio che rappresenta il suo essere sostanzialmente un cadavere, avendo perso ogni senso per esistere. L’oscurità era fondamentale per far capire come si fosse chiusa nel guscio morto della sua mente, debolmente presente alla vita: come se non fosse in grado di sapere se si trova lì oppure no. Ogni volta che entra qualcuno dall’esterno porta però una fonte di luce, accendendo una fiammella o con la luminosità del sole…è come se gradualmente queste visite la riportassero in vita. È una storia di persone il cui cuore è già morto a metà a causa della guerra, e per questo anche gli ex soldati nel film spesso si sciolgono nell’oscurità, oppure compaiono e scompaiono nella luce.

Il limbo tra vita e morte lo aveva già esplorato in un suo film precedente, «Vital» (2004), seppure in un contesto diverso.

È un’interpretazione nuova e interessante, non avevo pensato a un possibile legame con Vital, ci rifletterò.

Ho visto più di una persona uscire in lacrime dalle proiezioni a Venezia, forse per il ruolo centrale del bambino in questo film, che ci comunica un senso di innocenza tradita. Anche per questo lo ha inserito nella sceneggiatura?

Tutte le guerre, tra cui naturalmente la Seconda guerra mondiale in Giappone, producono orfani: bambini soli che vagano, spesso senza riuscire a sfamarsi, ne sono morti molti di fame e malattie. Ci sono stati anche molti casi di bambini che si sono suicidati. Questo bambino invece, così forte e vitale, rappresenta la preghiera di cui parlavo prima: che tutto ciò non accada di nuovo, che i bambini del futuro vivano.

La parte centrale del film racconta la vendetta da parte di un ex soldato nei confronti di un generale macchiatosi di terribili crimini. Alla fine decide però di risparmiarlo, perché?

L’ex soldato vuole davvero uccidere quello che era stato il suo superiore, le sue azioni erano imperdonabili e in particolare, lo aveva costretto a uccidere il suo migliore amico. Ma dargli la morte significherebbe diventare uguale a lui. Le possibilità tuttavia non si esauriscono qui, perché l’ex soldato a un certo punto punta la pistola alla propria tempia e potrebbe uccidere se stesso per gli assassinii che ha commesso durante la guerra, ma sarebbe stato come uccidere il suo amico un’altra volta. Ho voluto lasciare allo spettatore la possibilità di soppesare le diverse possibilità, credo comunque che pensare di mettere un punto attraverso la morte sia troppo facile.

Molti avvenimenti accadono fuori campo e il suono diventa centrale non solo per ricostruire la storia, ma anche perché trasmette la costante presenza della natura.

Trattandosi di un film piuttosto semplice, era importante per me che non diventasse un lavoro di impianto teatrale. Il sound designer Masaya Kitada, con cui lavoro sempre, ricrea sensazioni palpabili del circostante, per questo abbiamo inserito il suono degli insetti, o il suono prodotto dal vento. Progettiamo attentamente lo spazio in modo che sia realistico.

È giusto ricordare che lei non è solo il regista, ma anche lo sceneggiatore, il direttore della fotografia, il montatore e il produttore del film. Crede ci sarà spazio in futuro per questo modo così personale di fare cinema?

Ora che l’uso di videocamere digitali facili da usare è così avanzato, i giovani stanno realizzando film liberamente e penso che sia possibile usare questi mezzi e allo stesso tempo essere creativi. Ci sono persone che lo stanno già facendo e credo saranno sempre di più in futuro, potendo girare e montare da sé e seguendo tutte le fasi, è molto più facile rispetto al passato essere un autore tout court.