Trump, un neo-isolazionista con le armi a portata di mano
Dopo estenuanti descrizioni della sua caricatura, ieri Donald Trump si è inverato nel primo discorso al Congresso. Non ha sbagliato busta come fanno ormai anche per gli Oscar. Ha preso […]
Dopo estenuanti descrizioni della sua caricatura, ieri Donald Trump si è inverato nel primo discorso al Congresso. Non ha sbagliato busta come fanno ormai anche per gli Oscar. Ha preso […]
Dopo estenuanti descrizioni della sua caricatura, ieri Donald Trump si è inverato nel primo discorso al Congresso. Non ha sbagliato busta come fanno ormai anche per gli Oscar. Ha preso sostanza patinata e addirittura inedita quanto drammatica autorità dalla tribuna del più alto consesso del più potente Paese d’Occidente.
Dispiegando la retorica della nuova ideologia americana. Soprattutto delineando un’America senza più diritti ma caritatevole, che «soccorre tutti i propri figli», perfino «ispanici e afroamericani», ha detto. E come? Con l’azzeramento di quel poco di assistenza sanitaria pubblica dell’Obamacare, e quindi con il rilancio delle assicurazioni private; poi con la «libertà di scelta» tra scuole private e scuola pubblica.
Vale a dire con il sostegno pubblico al mega-sistema delle scuole private Usa. Ma soprattutto avviando la dura repressione dell’immigrazione «senza documenti», con il «muro con il Sud» (con un’ottica global-continentale, non solo verso il Messico). E con l’uso massiccio delle forze di polizia e di una giustizia separata per i delitti commessi da immigrati «irregolari». Anche a seguito dell’esplodere della violenza tutta americana quanto interna. Un iper-controllo dell’immigrazione motivato per fermare l’ingresso dei «terroristi». Ma gli autori dell’attaco dell’11 settembre venivano dall’alleata Arabia saudita.
Punto strategicamente centrale, il ritorno in patria delle aziende americane che «subiscono» barriere doganali e tasse – tacendo del costo del lavoro azzerato del quale si avvalgono le multinazionali – con l’apertura invece di dazi e imposizioni alle aziende che entrano in America. Se «45 milioni di americani sono poveri e uno su cinque è disoccupato», bisogna proteggere i lavoratori americani e il loro salario, imporre che la produzione sia a sovranità statunitense (qui abbiamo visto applaudire perfino Bernie Sanders, a conferma dell’apprezzamento di questa posizione sovranista-lavorista). Aprendo se necessario un contenzioso aperto contro quello che il Wto è diventato, perché è entrata «anche» la Cinacon la sua economia.
Sullo sfondo, il non detto. O meglio l’annuncio epocale del giorno prima. Vale a dire che l’isolazionismo per affermarsi – «prima di tutto l’America» – ha bisogno di armarsi e minacciare nuove guerre. Per ora facendo melina sui disastri precedenti prodotti dalle politiche estere dei presidenti repubblicani, democratici e spesso bipartisan in Medio Oriente.
Ma spostando di poco l’asse del dominio.
Così se nell’agenda di Trump non viene nominata la crisi sanguinosa in Siria, né quella in Iraq o in Libia, né il conflitto in Afghanistan che dura da 16 anni, viene però ufficialmente aperto lo scenario dello scontro con l’Iran. Subito con il rilancio delle sanzioni alle aziende Usa, occidentali e europee che hanno aperto linee di credito con Tehran prima e dopo gli accordi sul nucleare iraniano siglati da Obama e Rohani; allo stesso tempo confermando l’«incrollabile sostegno» a Israele impegnata a cancellare addirittura l’ipotesi di uno Stato palestinese e a rilanciare il conflitto su vasta scala con l’Iran e le forze mediorientali sciite.
La strategia neo-protezionista dunque prepara nuove offensive e conflitti, sia «commerciali» sia «per la sicurezza», con un implicito rilancio del tema nefasto degli «stati canaglia» a seconda degli interessi Usa. Al di là delle caricature, Trump ha semplicemente annunciato un aumento complessivo del budget militare di 84 miliardi di dollari in più. Estorti significativamente alle spese per l’ambiente e alla sanità pubblica.
Un balzo in avanti nel pozzo della spesa per la difesa statunitense che già ammontava a più di 660 miliardi di dollari nel 2015. Per avere «l’esercito più forte al mondo» e, ancora più pericolosamente, una necessaria e nuova «supremazia nucleare», come se non bastassero le miglia di atomiche disseminate nel mondo (70 in Italia). Raccontare che questo potente riarmo sia meglio di una nuova guerra subito è a dir poco riduttivo.
È infatti già un primo passo dentro nuovi conflitti armati e nell’immediato un elemento fortemente destabilizzante. Che preoccupa la Russia, alla faccia della presunta «connection» per l’elezione del nuovo inquilino della Casa bianca. Anche perché la Russia vede già truppe americane ai suoi confini, in Polonia e nei Paesi Baltici; con la Nato che si allarga sempre di più a Est e che Trump non abbandona.
Anzi. Chiede solo ai ben disposti alleati – tutt’altro che allarmati dal riarmo Usa – di spendere atlanticamente di più (l’Italia con la Pinotti addirttura vuole un Pentagono italiano). Un riarmo che allarma la Cina che ha di fronte in Asia il riarmo dell Giappone, la crisi coreana accesa e che soprattutto intravede lo scontro economico Washington-Pechino che si apre nel mondo. Trump straccia la globalizzazione coniugando riarmo a dubbia «autarchia economica», rinsaldando il legame fortissimo con il complesso militar-industriale. Facendo così a pezzi perfino la storia americana, che vide il testamento politico del presidente repubblicano Eisenhower in un dossier a conclusione del suo mandato che denunciava il condizionamento subìto dalla democrazia Usa da parte delle lobbies militari.
Per rilanciare l’America «prima» e «grande», senza più maschere, Trump insieme alla retorica delle promesse dovrà alimentare nuove paure e conflitti.
Neo-isolazionista, fuori della globalizzazione e con le armi a portata di mano.
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