Trent’anni di proibizionismo sul corpo di Fabrizio Pellegrini
Un caso kafkiano Ma di cosa parliamo quando parliamo di legalizzazione della cannabis? Certo, le questioni in campo sono tante, gli approcci molteplici e le evidenze scientifiche – di natura giuridica, sanitaria e […]
Un caso kafkiano Ma di cosa parliamo quando parliamo di legalizzazione della cannabis? Certo, le questioni in campo sono tante, gli approcci molteplici e le evidenze scientifiche – di natura giuridica, sanitaria e […]
Ma di cosa parliamo quando parliamo di legalizzazione della cannabis? Certo, le questioni in campo sono tante, gli approcci molteplici e le evidenze scientifiche – di natura giuridica, sanitaria e sociale – che motivano una normativa antiproibizionista risultano davvero incontrovertibili. Ma, poi, c’è la vita vissuta, l’esperienza della fatica e del dolore, e ci sono esigenze, urgenze che premono. Dunque, la libertà di autodeterminazione dell’individuo, la regolamentazione di mercati oggi tanto più pericolosi perché illegali, e la salute pubblica: ma, forse prima di tutto, c’è Fabrizio Pellegrini, recluso in una cella del carcere di Chieti.
Questa è la sua storia, che riassume tragicamente l’eredità di contraddizioni lasciateci da decenni di politiche proibizioniste. Pellegrini è un pianista di 47 anni, malato di fibromialgia, che si trova in carcere da oltre un mese per aver coltivato alcune piante di cannabis nel suo appartamento.
La patologia da cui il suo corpo è affetto è connotata da una sofferenza cronica del sistema immunitario, che negli stadi avanzati, porta all’erosione di tutte le articolazioni, con un dolore incessante, e la conseguente impossibilità di trovare una qualche forma di riposo: «Alcune volte passo interi giorni disteso sul pavimento, anche l’esile peso del mio corpo è insopportabile per la mia colonna vertebrale».
Quasi per caso, alcuni anni fa, Pellegrini si accorge che l’assunzione di cannabis gli consente di recuperare una maggiore mobilità e un po’ di sonno. Ma rivolgersi al mercato illegale vorrebbe dire avere un prodotto di pessima qualità e oltretutto assai costoso.
Così Pellegrini comincia a coltivare alcune piante sul suo balcone, dando luogo a una micidiale sequenza di arresti, perquisizioni, reclusioni, procedimenti giudiziari. Ma nonostante le difficoltà e le umiliazioni, il dolore è troppo forte e non appena libero Pellegrini ricomincia a coltivare le sue piante.
Uno spiraglio di speranza si apre quando incontra un medico che comprende la sua situazione e gli prescrive della canapa terapeutica.
Ma non appena si reca a ritirare il farmaco si accorge che i suoi problemi non sono finiti: per un mese di terapia il costo è di 500 euro: denaro che non ha, e che deve raccogliere attraverso una colletta tra amici. Ma, successivamente, non riesce più a sostenere la spesa. E torna alla coltivazione domestica. E ciò in un paese dove il thc, il principio attivo della cannabis, è stato ammesso in terapia sin dal 2007, e in una regione, l’Abruzzo, che dispone della più avanzata legge regionale in materia. Legge che prevede una formazione specifica per il personale sanitario, e che istituisce un fondo annuo di 50 mila euro per porre a carico del servizio sanitario regionale la cannabis dei pazienti abruzzesi.
Ma, ciò nonostante, macchinosità burocratiche e limiti rigidissimi, costi insostenibili e resistenze culturali, rendono i farmaci a base di cannabinoidi tutt’altro che agevolmente accessibili a chi ne abbia documentata necessità.
Ecco, i legislatori dovrebbero sempre considerare che le norme che vanno ad approvare, o che vanno ad abrogare, si incarnano poi nella vita sociale e nei corpi delle persone in carne e ossa. Per esempio in quella di Fabrizio Pellegrini che aspetta disteso sul pavimento di una cella del carcere di Chieti.
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