Quando si snocciolano dati su carcere, ergastolo ostativo e 41 bis bisognerebbe ricordarsi sempre che ogni numero è una storia. E tutte le storie individuali raccontano vite di «invisibili» che non possono essere ridotte a statistiche. Ma neppure – va forse ribadito con più forza oggi – a simboli di comodo. Il rapporto dell’associazione «A buon diritto» presentato ieri nella sala stampa di Montecitorio contiene una storia di donne o di uomini emblematica per ciascuno dei diritti universali «negati» ancora oggi, nel 2022, malgrado un secolo di lotte, e in particolare in questo nostro Paese. Sono 17, i diritti che la onlus diretta da Valentina Calderone e presieduta da Luigi Manconi è riuscita a «nominare come tali», perché per altri – come ha sottolineato la senatrice Susanna Camusso intervenuta alla presentazione del dossier – non è sufficiente la nostra consapevolezza sociale e soprattutto politica. «È il caso del lavoro povero, che dobbiamo nominare in inglese», working poor, dato che in Italia esso «non riesce a trovare comprensione e visibilità, perché nella nostra cultura – ha spiegato Camusso – il lavoro è associato storicamente alla ricchezza». E non si riesce a comprendere che l’esclusione del lavoratore dai consumi determina una «precarietà che non è solo economica ma anche esistenziale».

Uno stuolo di ricercatori di «A buon diritto», associazione finanziata dalla Tavola Valdese, ha lavorato ai 17 capitoli per mettere a punto un rapporto «corale e intersezionale», aggiornato al 2021, su: Libertà di espressione e di informazione, Pluralismo religioso, Salute e libertà terapeutica, Istruzione, Ambiente, Autodeterminazione femminile, Lavoro, Persona e disabilità, Profughi e richiedenti asilo, Migrazioni e integrazione, Rom e Sinti, Lgbtqi+, Minori, Prigionieri, Salute Mentale, Dati sensibili e Diritto all’abitare. Intorno a questi temi l’associazione, che dal 2014 monitora ogni anno progressi e regressi sullo stato dei diritti e propone soluzioni, quest’anno ha sottoposto a deputati e senatori un «Manifesto di intenti», per cercare di «dare slancio all’azione politica» proprio quando l’orizzonte si fa più buio. Un «Manifesto» che è stato finora sottoscritto da trenta parlamentari tra i quali Bakkali, Bonelli, Camusso, Cucchi, Cuperlo, D’Elia, De Cristofaro, Evi, Floridia, Fratoianni, Magi, Orfini, Piccolotti, Schlein, Zampa e Zan.

«I diritti sono uno dei temi importanti su cui costruire il nuovo Pd, lo sono stati nel nostro programma elettorale e saranno un tema importante anche per il lavoro di opposizione in questa legislatura», ha assicurato la senatrice dem Cecilia D’Elia che ha sottolineato il forte ritardo italiano sulla parità di genere, sulla lotta alla discriminazione «e soprattutto sull’empowerment femminile». Per questo, ha aggiunto, «sono d’accordo tra l’altro con la vostra richiesta di un bilancio di genere da parte degli enti locali».

Riccardo Magi, presidente di +Europa, ha tenuto il focus sulle migrazioni descrivendo «un quadro arretrato su asilo, accoglienza, lavoro» e proponendo «la modifica della legge Boss-Fini, una revisione del decreto flussi, una commissione parlamentare d’inchiesta sugli accordi Italia-Libia e un piano nazionale di accoglienza con standard adeguati».

La deputata del Pd Ouidad Bakkali ha parlato dell’infanzia, un concetto relativamente recente, perché fino a inizi Novecento esistevano solo bambini e bambine. Emblematica la storia raccolta nel dossier di Mary Ellen Wilson, una bimba newyorkese nata nel 1864, abusata e seviziata dalla madre naturale e poi da quella adottiva, che ottenne giustizia solo quando i volontari che tentavano di toglierla dalla famiglia affidataria ricorsero alle leggi sulle violenze verso gli animali. Non c’era altro modo, perché il diritto ad un’infanzia serena non era ancora riconosciuto.

La dem Rachele Scarpa, la più giovane parlamentare della legislatura, ha preso l’impegno «a lavorare per un grande piano di investimenti» sulla salute mentale che è «garantita solo a metà». Perché le Regioni, che vent’anni fa avevano promesso di impegnare il 5% della spesa sanitaria sulla salute mentale, «oggi arrivano al massimo a destinare il 3% dei fondi sanitari». Ha ricordato che «il 40% dei detenuti è affetto da qualche patologia psichica» e che anche fuori dal carcere «andare dallo psicologo per un mese costa quanto un mese di affitto a Venezia». Perciò, ha concluso Scarpa, «questo diritto non è garantito: è un paradosso della società in cui viviamo, perché si chiede al cittadino di guadagnare il doppio per potersi curare».