Sami Abu Omar non ha mai interrotto il suo lavoro ed impegno di operatore umanitario, per tutta la durata della guerra. Pur affrontando, con la sua famiglia, le stesse tremende difficoltà e privazioni di tutti i palestinesi di Gaza. «Alcune associazioni e ong italiane hanno trasferito qui a Gaza donazioni per circa 20mila euro per aiutare i civili più in difficoltà – ci racconta grazie a Whatsapp -, fondi che impiego per acquistare materassi, coperte, abiti, generi di prima necessità per gli sfollati qui a Khan Yunis. Famiglie intere senza più nulla che dal Nord hanno percorso chilometri a piedi per scappare dai bombardamenti israeliani. Il nostro aiuto però è una goccia, serve molto di più». Abu Omar è noto negli ambienti della cooperazione non governativa italiana a Gaza. Odontotecnico con studi fatti a Pisa, anni fa ha messo via le protesi dentarie per svolgere a tempo pieno il lavoro di operatore umanitario. È anche uno dei responsabili del Centro di scambio culturale italo-palestinese Vik dedicato a Vittorio Arrigoni. «Il centro è ancora in piedi, il palazzo è stato colpito e danneggiato nelle scorse settimane ma il nostro appartamento ha resistito» ci rassicura. Sami non ha lasciato la sua abitazione a Bani Suheila, alle porte di Khan Yunis. «Ma se riprenderà la guerra e i carri armato israeliani avanzeranno anche qui a sud, la mia famiglia ed io forse saremo costretti a fare una scelta diversa. Tutte le volte che si avvicina la fine della tregua, come gli altri abitanti di Khan Yunis, cominciamo ad avere paura. Quanto è accaduto al nord di Gaza è stato terrificante».

Timori comprensibili. Il premier israeliano Netanyahu anche ieri ha ribadito che gli obiettivi iniziali della guerra restano validi, a partire da quello della «distruzione di Hamas». «Negli ultimi giorni – ha detto – ho sentito una domanda: una volta completata questa fase del ritorno dei nostri ostaggi, Israele riprenderà a combattere? La mia risposta è un sì inequivocabile». In serata è giunta l’approvazione del capo di stato maggiore Herzi Halevi ai futuri piani operativi delle Forze armate. Se saranno messi in atto è probabile che Israele non lanci un’altra massiccia campagna di bombardamenti aerei al sud di Gaza, indigesta, almeno a parole, agli Usa e all’Europa. Piuttosto concentrerà la sua azione sulla fascia orientale, in alcune aree del nord della Striscia e di nuovo a Gaza city. Le immagini viste in questi giorni di militanti delle Brigate Qassam di Hamas che nel centro di Gaza city salutano con gentilezza gli ostaggi israeliani consegnati alla Croce Rossa, sono state accolte con irritazione al ministro della Difesa a Tel Aviv dove si riteneva di aver strappato la città al controllo del movimento islamico. «Ci aspettiamo che la guerra riprenda. Fino a quando gli Stati uniti e i loro alleati non chiederanno la tregua permanente, Israele continuerà ad attaccare. La chiave è questa», ci  ha detto un giornalista di Gaza.

Il Qatar, che media tra le parti, ieri si è detto «ottimista» sulla possibilità di prolungare la tregua, forse per altri due giorni. Hamas da parte sia si dice pronto ad altri quattro giorni di cessate il fuoco se il governo Netanyahu si dichiarerà ancora disposto a scarcerare prigionieri politici palestinesi in cambio della liberazione di altri ostaggi israeliani. Ieri il Jihad islamico ha consegnato, assieme ad Hamas, alla Croce Rossa 10 sequestrati. Altri due sequestrati israeliani, in possesso anche del passaporto russo, sono stati rilasciati in accoglimento di una richiesta di Vladimir Putin. In tarda serata sono stati scarcerati altri 30 palestinesi detenuti in Israele, tra cui per la prima volta alcune donne arabo israeliane (palestinesi con cittadinanza israeliana).

A complicare, e non poco, i negoziati per l’estensione del cessate il fuoco è l’annuncio della morte di un bambino israeliano di 10 mesi e di altri due membri della sua famiglia, presi in ostaggio il 7 ottobre. Hamas sostiene che Kfir Bibas, il fratello Ariel di quattro anni e la madre sarebbero rimasti uccisi in un bombardamento aereo. La notizia è stata accolta con incredulità in Israele dove il caso dei Bibas è molto seguito. E potenzialmente potrebbe far saltare le trattative per allungare la tregua. Secondo alcune fonti, Hamas avrebbe nelle sue mani ancora pochi civili. Pertanto, per soddisfare la richiesta di Israele di liberare tutti i civili, anche gli uomini, dovrebbe localizzare più sequestrati. Si troverebbero in una rete di tunnel sotterranei, ma gli attacchi aerei, che hanno raso al suolo interi quartieri, potrebbero aver interrotto i passaggi tra le gallerie rendendo più complesso il loro ritrovamento. Più di 60 ostaggi, afferma Hamas, sono dispersi. Il Jihad avrebbe una trentina di israeliani. Altri 20 ostaggi sarebbero nelle mani di gruppi più piccoli. In questo quadro i soldati rappresentano la principale risorsa nelle mani di Hamas per ottenere la scarcerazione di tutti i prigionieri politici palestinesi (tra 6-7mila). In quel caso il movimento islamico si proclamerà vittorioso acquistando ulteriore prestigio tra i palestinesi. Uno scenario che il gabinetto di guerra israeliano intende evitare continuando la guerra. Al ministero della Difesa a Tel Aviv pensano che più Hamas verrà stretto nella morsa e più facilmente rinuncerà a dettare condizioni.

Lontano dai riflettori, la Cisgiordania occupata diventa giorno dopo giorno il terreno per continue incursioni «antiterrorismo» dell’esercito e della polizia nelle città palestinesi. Ieri due palestinesi giovanissimi – un bambino di 8 anni, Adam Al Ghoul, e un ragazzo di 15, Basil Abu Al Wafa – sono stati uccisi dal fuoco di tiratori scelti israeliani durante un raid dell’unità scelta Yamam (polizia di frontiera) a Jenin e nel suo campo profughi. Le immagini di queste uccisioni hanno fatto il giro dei social. Secondo il portavoce militare i due, incluso il bambino, si accingevano «a lanciare ordigni». Nell’incursione sono stati uccisi anche due combattenti: Muhammad Al Zubaidi e Wissam Hanoun.