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Tradurre Sylvia Plath è un lavoro spaventoso

Tradurre Sylvia Plath è un lavoro spaventosoFoto di Amy T. Zielinski, 2011, Getty Images

Classici del Novecento «Lo Specchio» Mondadori ripropone «Lady Lazarus» e altri testi della poetessa americana (suicida nel ’63) nella storica versione di Giovanni Giudici: non le era affine, ma fu approvato dagli specialisti

Pubblicato più di un anno faEdizione del 30 aprile 2023

Sono arrivati in libreria contemporaneamente due volumi di Giovanni Giudici: una poderosa raccolta di tutte le sue poesie, presentata da Cucchi, e, nello «Specchio» di Mondadori, una smilza ma attraente antologia di traduzioni da Sylvia Plath che porta in copertina il nome di lei: Lady Lazarus e altre poesie nella traduzione di Giovanni Giudici, con introduzione del traduttore e postfazione (recente) di Teresa Franco (pp. X-173, € 18,00). Si tratta della felice ristampa della prima edizione del 1976, quando ancora di Plath avevano scritto solo docenti di letteratura americana: Oliva, Sertoli, Gorlier, Bianca Tarozzi, poetessa, che aveva tradotto una decina di poesie (La nascita del mostro in «Per la critica» n. 7-8,1974). Daria Menicanti aveva tradotto il romanzo autobiografico La campana di vetro (Mondadori, 1968) e in appendice sei poesie tratte da Ariel.

La voce della protagonista Sylvia-Esther risuona perentoria, sprezzante, adolescente confusa ma in marcia verso un futuro di conquiste letterarie, mondane, sessuali. Una drammatica emorragia è la sanguinosa conseguenza della perdita della verginità da lei stessa freddamente architettata. Si suicida l’amica dagli occhi bovini, offerta in sacrificio a un Assoluto ancora indistinto. Colpo di scena romanzesco? O la prima uccisione simbolica di amici, amiche, madri, dottori, fidanzati? – come suggerisce Tarozzi. «Quello sforzo colossale che è semplicemente vivere non mi può bastare». Nel deserto si porterebbe il Thesaurus, non la Bibbia. La passione per Ted [Hughes ndr] la scuoterà profondamente, come lei stessa scrive dopo l’incontro fatale in pagine disperate che Giudici non poté, né avrebbe voluto, leggere in The Journals of Sylvia Plath, pubblicati solo nel 1982. «Leggerò Hopkins …». Ma qualche giorno dopo: «Sto male, sto male. Per questa furia disperata … L’amore si trasforma, la voglia si trasforma in pulsione di morte. Il mio amore se n’ è andato via, via, e io vorrei essere stuprata. ‘È notte’» (Diario, 1956).

Giovanni Giudici, seduto al suo scrittoio, «portatile Olivetti al centro, originale sulla sinistra, dizionario sulla destra», è a disagio per quel difficile lavoro traduttorio, accettato per commissione. Diffida di quella icona «dolce e ricattatoria», l’eterna vittima invendicata Sylvia Plath, divenuta famosa sull’onda di una nuova sensibilità poetica Si giustifica: «Così con Frost (e anche Ransom e, più recentemente con Coleridge), la commissione finiva per trasformarsi ancora una volta in passione; il che non mi accade, e non per difetto del Poeta, con le traduzioni da Sylvia Plath che deliberatamente non includo in questa scelta, o perché disturbato dal clamore pubblico che del suo nome e del suo doloroso caso umano si è fatto o perché sento che quel lavoro non mi ha lasciato segno. Fu appena un “servizio”… Mancanza di affinità? No, non è questo … E, del resto, non è forse da una grande lontananza o diversità che può nascere, se non un amore, almeno la curiosità di capire? Ecco questa ‘distanza’. Essa sì che può essere una condizione utile al tradurre. Distanza dalla lingua, soprattutto…» (Addio, proibito piangere. Poesie 1955-1980, Einaudi 1983).

Confessa passività, svogliatezza, ma ammette «che vi fu in Sylvia Plath una ferrea disciplina della parola perseguita in anni di severo esercizio e decisiva poi nel consentirle di governare con una impassibilità da chirurgo e insieme al di là di ogni ambizione bellettristica la sconvolgente esperienza del suo finale conoscersi e riconoscersi» – dal Discorso di ringraziamento per il premio Monselice vinto nel 1977, anno in cui esce un suo nuovo libro di poesie, Il male dei creditori. «Plath è un lavoro spaventoso» aveva confidato. Tuttavia la sua Plath ‘italianata’ piacque agli specialisti (Gorlier, Camboni) che vi ritrovano il ritmo spezzato, spaziato, percussivo di due grandi maestri, John Donne e G.M. Hopkins: tradotto il primo da Cristina Campo (Einaudi, 1971) il secondo da Augusto Guidi (Guanda, 1945). Giudici si era provato a tradurre tre poesie di John Donne: Addio, proibito piangere, I sei velenosi minerali, Morte non sii superba, poi raccolte nell’antologia di poesie tradotte del 1983.

Il famoso saggio di Eliot, The Metaphisical Poets (1921) aveva suscitato grande interesse in Italia. Praz, Melchiori, Guidacci, Rosati, Pisapia, Valduga, Campo, Serpieri-Bigliazzi, Tavelli lanciarono Donne come il più straordinario fra quei poeti secenteschi così lontani dalla tradizionale lirica italiana. Poesia metafisica, non riflessiva, poesia intellettuale, sensibilità vorace e metamorfica, scelta della parola monosillabica di origine sassone, scandita nel verso compatto e agile, «un effetto di grande rapidità a causa dell’uso di sillabe brevi» (Eliot). Il traduttore italiano raccoglie la sfida: «Death be not proud, though some have called thee // Mighty and dreadful (Donne); «Morte non andar fiera se anche t’hanno chiamata / possente e orrenda» (Campo), «Non andar fiera morte, se anche c’è / chi ti ha detto terribile e potente» (Tavelli), «Morte, non esser superba, pur se t’hanno chiamata / possente e terribile» (Serpieri-Bigliazzi), «Morte non sii superba, se tremenda / e possente ti chiamano» (Giudici).

Un gran dono per i traduttori italiani fu la maledizione dell’endecasillabo pronunciata da Giudici: «proprio nel tradurre Frost, puntigliosamente sforzandomi di tenermi sullo stesso numero dell’originale, mi capitò di liberarmi dalla (non saprei dire altrimenti) maledizione di quell’endecasillabo sardina sott’olio (ossia automatizzato, prevedibile) in cui a prima vista si penserebbe di rendere il blank verse … Come risolvere in quella scolastica misura la superiore densità semantica della lingua inglese?» (Addio, proibito piangere, p. IX).

Da ragazzo, aveva imparato l’inglese parlato nella cucina della Royal Air Force, a Roma dietro piazza Bologna. «Avevo poi fatto finta di saperlo (sempre e soltanto Yes) in un ufficio americano». E la conclusione: «non fu la letteratura a condurre per mano la mia esistenza, ma (nel giusto e nell’ingiusto) viceversa» (Addio, p. XI). Come ha lavorato il raffinato artigiano? Bastano le prime tre strofe di Lady Lazarus. «L’ho rifatto. / Un anno ogni dieci / Ci riesco – // Una specie di miracolo ambulante, la mia pelle / Splendente come un paralume nazi / Un fermacarte il mio // Piede destro, / La mia faccia un anonimo, perfetto / Lino ebraico». Abili spostamenti, termini monosillabici, rime ironiche conferiscono al testo italiano quel peso metafisico che l’originale si era meritato nel giudizio di Archibald McLeish in Ars Poetica: «Una poesia dovrebbe essere palpabile e muta // come un tondo frutto / fredda come vecchie medaglie al tatto / una poesia dovrebbe essere pari a niente / una poesia non dovrebbe dire / ma essere». Giusto, per Sylvia Plath.

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