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Russia, tra ortodossia e slavismo, l’eterna «eccezione» di una identità nazionale

Russia, tra ortodossia e slavismo, l’eterna «eccezione» di una identità nazionaleEkaterina Lisovenko, «Senza titolo», 2022

Saggi «L'idea russa da Dostoevskij a Putin», da Neri Pozza

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 17 luglio 2022

La riflessione sull’identità nazionale ha conosciuto in Russia un’ipertrofia non paragonabile a quella di altre culture: una sorta di chiodo fisso ineludibile, che ha generato nell’arco degli ultimi tre secoli una mole imponente di elaborazioni. Ripercorrerle praticamente tutte, come fa Bengt Jangfeldt nel suo corposo saggio appena tradotto – L’idea russa Da Dostoevskij a Putin (traduzione di Lidia Salvati, Neri Pozza, pp. 185, € 18,00), equivale a reintrodurre nodi cruciali per la comprensione di un presente altrimenti inintellegibile. Nelle epoche che si susseguono, e nelle correnti di pensiero che le accompagnano, a colpire sono le costanti, piuttosto che le variabili. Posizioni messe a punto secoli fa si rivelano provvidenziali per confrontarsi col presente: l’eurasismo, ad esempio, nato negli anni Venti nel contesto dell’emigrazione, prefigurava uno stato «ideocratico» fondato sull’ortodossia e capace di unificare un territorio vastissimo, non assimilabile interamente né all’Asia né all’Europa. Al tempo del suo principale teorico, Nikolaj Trubeckoj, ebbe un impatto limitato, ma fu riportato in voga nell’era di Gorbachev per mano di Lev Gumilev, per finire inglobato nei controversi scritti (diffusi con tirature sovietiche) di Aleksandr Dugin, ideologo putiniano.

La coazione a ripetere fa perno su caratteristiche impermeabili alle mutazioni – tra epoca zarista, settantennio comunista e fase post-sovietica – in un copione che si ripropone invariato dal tempo di Caterina II ad oggi, tra colpi di stato riusciti e moti falliti, idealismo dei pochi e acquiescenza delle masse, ferreo potere centrale basato sul gigantismo degli apparati repressivi e disegni riformisti abbandonati malamente alla prima minaccia di scossoni alle fondamenta statuali.

Il meccanismo, dalla gittata plurisecolare, si innesca con Pietro il Grande: è la colossale, innaturale sterzata in direzione europea da lui impressa al percorso del paese a inaugurare le forzature che ciclicamente si ripresenteranno nelle epoche successive. Anche il pensiero si orienta verso una polarizzazione assoluta, generata alla collisione di due principi: il volto slavo della Russia, profondamente intrecciato alle sue radici asiatiche, e quello europeo «di importazione», osannato o ripudiato a seconda dei frangenti.

Delle due dorsali di matrice ottocentesca che si delineano (Slavofilia e Occidentalismo), la meno longeva è la seconda, segnata dalla tragica figura di Petr Chaadaev: primo intellettuale dichiarato pazzo per motivi politici, la sua cruda «lettera filosofica» del 1836, che additava l’inclusione solo apparente della Russia nella famiglia delle nazioni europee, aveva avuto l’effetto di uno «sparo nella notte». È agli Slavofili che si deve il mito dell’unicità russa, l’idea di una civiltà contraddistinta da una profonda spiritualità e da una superiorità indiscussa rispetto al «marcio» Occidente, al punto da potersi autoinvestire di una missione salvifica nei suoi confronti. La Rivoluzione del 1917 aggiunge una componente ideologica al tradizionale antagonismo tra Russia ed Europa, che si fa contrapposizione tra socialismo e capitalismo.

Nel vuoto post-marxista, il bisogno di un modello universale capace di rimpiazzare quello che per settant’anni aveva accompagnato la vita dei popoli sovietici trova la risposta più attraente nell’eurasismo, che nelle sue diverse accezioni si fa duttile strumento di propaganda in chiave antiatlantica. Riesumata la nozione di impero – una delle costanti più stabili dell’autorappresentazione nazionale – «l’unica idea unificante possibile» sarà il patriottismo, instillabile mediante una capillare politica culturale. È almeno a partire dal 2013 che Putin promuove in ogni possibile occasione ufficiale il paradigma della rovina morale dell’Occidente, e dell’urgenza di difendersene, dando corso alla propria «missione morale superiore». Un’idea dalle radici lontane ma tenacissime, che mostra come la storia del pensiero russo contenga in sé anche i germi della sua autodistruzione.

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