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Tra malattia e cultura, la violenza maschile messa alle strette

Tra malattia e cultura, la violenza maschile messa alle stretteMurale a Roma Tor Marancia

Disagio psichico o retaggio patriarcale. O entrambi. Come si combatte la piaga dei maltrattamenti in famiglia e sulle donne. Non esistono linee guida nazionali e il tema è controverso. Un anno fa stanziati 8 milioni per i centri

Pubblicato più di un anno faEdizione del 19 maggio 2023

«Il maschio violento non è un malato, ma è figlio sano del patriarcato», dice un noto slogan femminista. La violenza sulle donne non è una malattia, eppure da qualche anno l’approccio sembra essere proprio quello della cura. È stata la Convenzione di Istanbul nel 2013 a parlare di istituire programmi rivolti agli autori di violenza.

In Italia è nel 2019, con la nascita del Codice Rosso, che si legifera sul trattamento psicologico per i condannati e sulla possibilità di sospensione della pena per i reati di: maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, atti sessuali con minorenne, violenza sessuale di gruppo e atti persecutori. Prima della legge, i corsi potevano essere consigliati dagli assistenti sociali, dalle forze dell’ordine (su ammonimento) o partecipati in modo volontario. Il fine a breve termine è l’interruzione della violenza e la sicurezza delle vittime. Il disegno ampio è il cambiamento culturale.

IL TEMA È CONTROVERSO: da un lato, c’è chi considera questa una prevenzione a ulteriori violenza; dall’altro, chi la vede come una scorciatoia per uno sconto di pena. La Convenzione di Istanbul promuove i corsi, ma non entra nelle questioni giudiziarie, mentre la legge italiana, approvata durante il governo gialloverde, sì. Su questo non tutti erano d’accordo, neppure alla Commissione Femminicidi. Parte del mondo femminista e dei centri antiviolenza non si pone in modo acritico, ma manifesta alcune perplessità. «Trattare la violenza come disagio psicologico mette da parte il fattore culturale del fenomeno – spiega Antonella Veltri, presidente di Dire, presente sul territorio con 106 centri antiviolenza – I numeri non possono essere spiegati come un problema individuale». Il rischio è anche quello di un modello familiare limitato: il suggerimento che si possa aggiustare la violenza nella coppia. Su questo la legge impone che la donna sia avvertita del percorso di rieducazione: «C’è il rischio di alimentare il sogno del cambiamento che molte donne che accogliamo hanno. Un tentativo di mediazione familiare». L’intesa Stato-Regioni, poi, non è abbastanza restrittiva su alcuni aspetti, come ad esempio non collocare i due centri nella stessa sede.

DI BUONO C’È che gli uomini sono chiamati alla responsabilità. Il diniego è altissimo nei casi di violenza sulle donne: mentre un rapinatore capisce il reato, l’uomo violento no. La privazione della libertà e le condanne aumentano poi l’idea di essere perseguitato ingiustamente. Anche i corsi sono accolti con riluttanza: «Un trattamento deve partire dalla volontà della persona, non per imposizione», fanno notare le voci femministe. Che ricordano il duplice femminicidio di luglio scorso a Vicenza, dove l’assassino, dopo un percorso e la sospensione della pena, ha ucciso ex compagna, Lidija Miljkovic, e fidanzata, Gabriela Serrano.

ANCHE GIUDICI e forze dell’ordine considerano il rifiuto un sintomo di pericolosità maggiore. «Bisogna intervenire in modo professionale e preparato, sapendo che l’uomo maltrattante non è né fragile né malato – spiega il procuratore di Tivoli, Francesco Menditto, attento al tema – ha bisogno di un percorso culturale, comprendere che deve rispettare la libertà di scelta della donna. Bisogna assolutamente evitare atteggiamenti giustificazionisti».

«Gli studi evidenziano che in certe situazioni il diniego può avere un beneficio favorendo la partecipazione ad un programma trattamentale», spiega la dott.ssa Georgia Zara, esperta sul trattamento dei sex offenders. «La partecipazione ad un trattamento riduce il rischio di ricaduta criminale; mentre il rischio aumenta maggiormente nei casi di interruzione, rispetto ai casi di chi neanche inizia».

GLI UOMINI CHE ACCEDONO sono sposati, con figli minorenni e occupati stabilmente in varie professioni. Il discorso sui figli è centrale: nelle cause di affido, i padri possono usare la partecipazione ai corsi come un patentino di cambiamento, come forma di controllo della donna o rivalsa sui figli e per rivederli dopo una prima interdizione.

Purtroppo in Italia non esistono studi ad hoc. L’unico è stato condotto dal Cipm (Centro italiano per la promozione della mediazione) all’interno del carcere di Bollate: su 250 casi in dieci anni, sette le recidive; mentre su 350 imputati prima della condanna definitiva, tre recidive. «In Paesi come Canada e Inghilterra la ricerca è sostenuta da importanti finanziamenti che permettono di fare studi che coinvolgono migliaia di partecipanti e i cui risultati sono statisticamente significativi», dice Zara.

Nonostante la legge non vi è una definizione univoca dei percorsi, che possono seguire modelli e orientamenti diversi e non esistono linee guida nazionali. Le domande per accedere dopo il 2019 sono aumentate di molto, spesso evase dagli stessi avvocati, ma è difficile soddisfare tutte. Per questo a maggio 2022 è stanziato un fondo di otto milioni per la creazione e il finanziamento dei centri, ora pochi e mal distribuiti. I corsi, secondo la legge, sono a carico dei maltrattanti e c’è chi vorrebbe eliminare la barriera economica o introdurre fasce di contribuzione.

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