Tra le strade di Haifa, la “città della (non) convivenza”
Medio Oriente Express Per i rifugiati palestinesi in diaspora Haifa è come Jaffa, il simbolo del ritorno. Lo è più di Gerusalemme, la città santa, perché Haifa e Jaffa sono le città del mare e del lavoro. Per gli israeliani è (era) la città “rossa”, dei portuali e dei lavoratori delle fabbriche, dei sindacati e della sinistra
Venerdì di festa, alle 11 del mattino Haifa è ancora sonnolenta. A due passi dal porto e dalla stazione dei treni, il quartiere della German Colony si crogiola sotto un sole tiepido, dono della costa mediterranea. I café si riempiono, sui tavoli hummus, pite calde e insalate fattoush. Intorno, le antiche pietre delle case arabe e giardini che sono dei piccoli gioielli.
Haifa ha tante anime, quelle che le dà chi ancora oggi ci vive e quelle immaginate da chi è lontano. Per i rifugiati palestinesi in diaspora Haifa è come Jaffa, il simbolo del ritorno. Lo è più di Gerusalemme, la città santa, della preghiera e della spiritualità, perché Haifa e Jaffa sono le città del mare, del lavoro, della ricchezza culturale che esplose nel corso dell’Ottocento, le sedi dei giornali, dei teatri, dei primi sindacati, delle organizzazioni femministe. Le città delle case in muratura che guardavano al Mediterraneo e degli agrumeti che avvolgevano le campagne.
Per gli israeliani è la città “rossa”, dei portuali e dei lavoratori delle fabbriche, dei sindacati e della sinistra. Dopotutto è qui che attivisti pacifisti, arabi ed ebrei, da quattro mesi insistono a organizzare proteste per il cessate il fuoco a Gaza, vietate, represse, ma comunque tenaci.
Perché ad Haifa hanno appiccicato l’etichetta di “città della convivenza”, la grande comunità dove israeliani ebrei e palestinesi vivono fianco a fianco, condividono spazi, luoghi di lavoro, quartieri. Ma convivenza non è coesistenza, mutuo riconoscimento. E il 7 ottobre ha cambiato pure quella propensione piuttosto basica alla tolleranza. Non c’è più fiducia, ci dicono, c’è maccartismo.
Haifa resta là, abbarbicata sul monte Carmel a guardare il mare con tanti occhi diversi. Gli occhi dei quartieri di Wadi Nisnas e Wadi Salib lo scrutano con un sollievo doloroso, sono gli unici sopravvissuti alla distruzione del 1948. Qui molte antiche palazzine sono ancora in piedi, memoria fisica della bellezza che fu. Ma gli altri sono stati cancellati, al loro posto grattacieli e palazzi moderni che potrebbero essere qui come in Europa. Sono stati cambiati anche i nomi dei luoghi, la topografia che è identità: Sahat al-Hanatir era il cuore di Haifa, il mercato della verdura e della frutta, quello del pesce e la stazione degli autobus; oggi si chiama piazza Parigi.
Pure il monte Carmel è diventato memoria di privazione. Così ci si chiamava Moshe, il generale a capo dell’unità paramilitare sionista Haganah, una delle più temute e brutali, quella che bombardò Haifa e la terrorizzò fino a svuotarla. Aprile 1948, un assedio durissimo. Dopo mesi di attacchi in città, ai 70mila palestinesi cristiani e musulmani che ci abitavano fu lasciata aperta solo una via d’uscita, verso nord, verso il Libano. Provarono a resistere ai cannoni, si rifugiarono in piazza dell’Orologio, a due passi dal Mediterraneo. L’Haganah bombardò anche quella secondo una strategia che si dimostrò così efficace che poche settimane dopo fu replicata a Jaffa: spingere i palestinesi verso il mare. Non poterono fare altro, salirono sulle barchette dei pescatori e fuggirono via mare sotto i colpi dell’artiglieria.
Quando Israele si proclamò stato indipendente, il 15 maggio del 1948, ad Haifa di palestinesi ne restavano appena 5mila. E restarono in un luogo che era difficile chiamare ancora “casa”: non esisteva più nulla della vita di prima, delle reti sociali, politiche, culturali, non c’erano più pescatori, operai, medici, sindacalisti, intellettuali, commercianti, insegnanti. Non c’erano più le due antiche Porte di accesso alla città, distrutte, non c’erano più i nomi delle strade. Ora si parlava una lingua nuova. Per gli arabi c’era il regime militare, era l’esercito che ti diceva quando e dove potevi muoverti, con permessi speciali che durarono un decennio. E ti diceva dove vivere: i palestinesi furono raccolti tutti dentro Wadi Nisnas. Anche chi era originario di Wadi Salib non ci poté tornare: “ragioni di sicurezza” gli dissero, eppure casa sua era a 200 metri.
Qualcosa è rimasto. Piazza dell’Orologio c’è ancora, anche se è sovrastata dalla Vela, un enorme grattacielo che sembra di stare nella City di Londra. C’è ancora anche la Chiesa di Nostra Signora, ma se non sai dove guardare non la vedi neanche: ci hanno costruito intorno così tanti edifici nuovi che è sparita. Un po’ come Haifa.
Le antiche case sopravvissute, con la legge degli Assenti e la legge dei Presenti assenti, emanate dal neonato Israele dopo la guerra per prendersi “legalmente” le proprietà dei rifugiati palestinesi, sono state tutte confiscate dallo stato. Wadi Nisnas resiste a modo suo, con pochissimo budget, allocazioni decisamente inferiori a quelle dei quartieri “nuovi”. Con le sue vecchie palazzine in pietra, i mercatini all’aperto, le signore che su una sedia di plastica guardano i passanti, i murales, gli occhi verso il mare.
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