Tra Biden e Teheran scoppia la diplomazia degli ostaggi
Usa/Iran Dieci cittadini statunitensi scambiati con cinque iraniani e cinque miliardi di proventi petroliferi. Nucleare, voci su un nuovo accordo
Usa/Iran Dieci cittadini statunitensi scambiati con cinque iraniani e cinque miliardi di proventi petroliferi. Nucleare, voci su un nuovo accordo
La diplomazia degli ostaggi ha portato alla liberazione di dieci persone. Sono tutti cittadini iraniani. Cinque di loro sono naturalizzati statunitensi, ma la Repubblica islamica non riconosce la doppia cittadinanza. A lungo detenuti in Iran, ieri pomeriggio sono arrivati in Qatar. Tra di loro l’uomo d’affari Siamak Namazi, arrestato nel 2015 e condannato l’anno successivo a dieci anni per spionaggio. In un comunicato, ha ringraziato il presidente Biden «per aver messo la vita umana prima della politica».
L’UOMO D’AFFARI EMAD SHARQI e l’ambientalista Morad Tahbaz sono gli altri due ostaggi di cui è noto il nome, mentre i due che restano anonimi sono probabilmente una ricercatrice e un imprenditore. Con loro, due famigliari e l’ambasciatore del Qatar a Teheran. La liberazione è il risultato di un delicato negoziato con Washington, annunciato il 10 agosto e mediato dalle autorità di Doha. Sono stati scambiati con cinque iraniani in cella negli Usa. Con Reza Sarhangpour, l’uomo d’affari Kambiz Attar Kashani è accusato di aver aggirato il regime sanzionatorio. Due iraniani – Mehrdad Moin-Ansari e Sarhangpour – sono arrivati ieri a Doha per essere rimpatriati, mentre gli altri tre hanno scelto di non tornare in Iran.
Per liberare i cinque statunitensi, l’amministrazione Biden ha messo sul piatto della bilancia anche l’equivalente di 5,5 miliardi di dollari, frutto della vendita di petrolio iraniano a Seul, bloccata nelle banche sudcoreane in seguito all’inasprirsi delle sanzioni contro l’Iran durante la presidenza Trump. Ieri, il governatore della Banca centrale iraniana ha reso noto che questa cifra è stata depositata sul conto di banche iraniane presso due banche del Qatar.
LO SCORSO 13 SETTEMBRE la Casa Bianca aveva negato che lo scongelamento di questa somma equivalesse al pagamento di un riscatto, e aveva precisato che le autorità iraniane potranno utilizzare questi fondi solo a scopi umanitari – per medicine e cibo – e sotto sorveglianza, ma la leadership iraniana rivendica carta bianca sull’utilizzo. Di fatto, questo baratto di prigionieri incoraggia ayatollah e pasdaran a continuare a prendere ostaggi.
Intanto, corre voce che Washington e Teheran stiano per annunciare un nuovo accordo nucleare, mediato dal sultano dell’Oman. Firmato a Vienna il 14 luglio 2015, il Jcpoa era stato bocciato dal presidente statunitense Trump nel maggio 2018, con il pretesto che si poteva fare di meglio, per esempio includendo il divieto per l’Iran di sviluppare un programma balistico.
CON IL SENNO DI POI, IL JCPOA avrebbe potuto rallentare il programma nucleare dei pasdaran. Il timing di queste molteplici operazioni che vedono protagoniste le diplomazie di diversi paesi non è da sottovalutare. Infatti, ieri il presidente iraniano Ebrahim Raisi è partito per New York per partecipare all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. E sempre ieri, l’amministrazione Biden ha annunciato sanzioni contro il ministro dell’Informazione dell’Iran e l’ex presidente Ahmadinejad.
È dal 1979 che la leadership della Repubblica islamica fa ampio uso della cosiddetta diplomazia degli ostaggi. Il 4 novembre di quell’anno, un gruppo di studenti prese d’assalto l’ambasciata statunitense a Teheran chiedendo che lo scià Muhammad Reza Pahlavi, a New York da pochi giorni, fosse estradato in Iran per essere processato per le violazioni dei diritti umani durante il suo regno. Una manciata di ostaggi fu liberata (gli afroamericani e le donne), 55 di loro furono trattenuti per 444 giorni.
L’amministrazione Carter provò a liberarli con l’operazione Artiglio dell’aquila, fallita miseramente. Di fatto, Carter si giocò un secondo mandato alla Casa Bianca. Ora, si tratta di vedere come queste operazioni con l’Iran verranno percepite dall’elettorato statunitense.
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