Toni Negri: «Il nuovo Palazzo d’inverno sono le banche centrali»
Esclusiva Intervista con Toni Negri in occasione della pubblicazione del suo ultimo libro "Assembly" scritto con Michael Hardt. A cento anni dalla rivoluzione sovietica, a cinquanta dal Sessantotto, uno dei filosofi più discussi al mondo propone una politica oltre i populismi
Esclusiva Intervista con Toni Negri in occasione della pubblicazione del suo ultimo libro "Assembly" scritto con Michael Hardt. A cento anni dalla rivoluzione sovietica, a cinquanta dal Sessantotto, uno dei filosofi più discussi al mondo propone una politica oltre i populismi
Quando ci sediamo a un lungo tavolo del suo appartamento a Parigi Toni Negri, 84 anni, ha in mano appunti fitti, lo sguardo teso, l’aria esigente. L’influenza che lo ha assillato dal ritorno da un viaggio in Brasile dove ha presentato Assembly, da poco pubblicato in inglese per Oxford University Press – quarta parte della ricerca comune scritta con il filosofo americano Michael Hardt dopo Impero, Moltitudine e Comune – lo rende impaziente:
«Non riesco a lavorare come vorrei» dice. Filosofo discusso a livello mondiale, ora sta lavorando alla seconda parte dell’autobiografia – la prima ha un titolo emblematico: Storia di un comunista.
E già progetta un nuovo volume a quattro mani con Hardt. Desiderio spinozista, pratica marxista, con Negri non è tempo di ricordi, ci si ritrova a parlare dall’interno di una tendenza.
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A una parola come «rivoluzione» oggi sembrano credere solo gli spin-doctor pagati per confezionare un programma per le elezioni. Per lei che ha creduto intensamente a una rivoluzione, fino al punto da cambiare radicalmente la sua esistenza, cosa significa questa parola?
Per me significa che la rivoluzione non la si fa, ma ti fa. Bisogna smetterla di mitologizzarla: la rivoluzione è vivere, costruire continuamente momenti di novità e di rottura. La rivoluzione è un’ontologia, non un evento. Non si incarna in un nome: Gesù Cristo, Lenin, Robespierre o Saint Just.
La rivoluzione è lo sviluppo delle forze produttive, dei modi di vita del comune, lo sviluppo dell’intelligenza collettiva. Non ho mai pensato di fare la rivoluzione e di andare al potere il giorno dopo.
Quando ero giovane ho pensato che il comitato operaio di Marghera avrebbe organizzato la società attorno al consiglio operaio e ai suoi ideali a partire dalla fabbrica. Allora, negli anni Settanta. Oggi è molto diverso, esiste un altro modo di produzione: si può organizzare la società a partire dal reddito di base, dalle nuove figure del lavoro, da nuove scuole e forme associative, da nuovi loisirs, uscendo dalla noia e dalla disperazione in cui viviamo.
Non ho mai pensato che la rivoluzione sia qualcosa che ti porta al potere, ma che cambia il potere. Significa prendere il potere in maniera differente.
È una differenza fondamentale: non vuol dire prenderlo dall’alto, ma dal basso. La rivoluzione c’è quando si è capaci di dimostrare che il comune emerge dal modo di produzione che investe la vita. È il bambino ad avere oggi il forcipe nelle mani, non l’ostetrico della storia.
Non ho mai pensato che la rivoluzione sia qualcosa che ti porta al potere, ma che cambia il potereToni Negri
Rispetto al linguaggio, e all’immaginario, corrente il suo approccio è sempre stato, a dir poco, discordante. A essere gentili, di solito, le viene risposto che è ottimista, utopista, visionario. A sinistra c’è sempre quell’aria cupa, realista, impegnata nello sforzo volontaristico a unirsi o nell’evocazione di soggetti che mancano. Come si trova in questo orizzonte?
Le posso rispondere con un episodio, molto pratico. Pochi giorni fa Michael ha presentato Assembly a Londra. Ha incontrato «Momentum», la rete di base che appoggia il Labour e Corbyn. Quello che è impressionante è l’incontro tra i giovani e i vecchi corbyniani, persone che hanno fatto il Sessantotto e le lotte degli anni Settanta e oggi sono trascinati dall’entusiasmo dei giovani che hanno fatto le lotte alter-mondialiste e quelle di Occupy, le ultime lotte di questa generazione. Manca tutta la gente tra i 35 e 60 anni, la generazione blairiana. Ecco dove si forma la nuova sinistra e con queste realtà oggi ci ritroviamo e superiamo i vecchi incastri con la cultura socialdemocratica.
Nel libro descrivete la straordinaria, e drammatica, emersione del movimento americano Black Lives Matters. In che rapporto è con l’onda che ha fatto molto parlare di Bernie Sanders?
Siamo in contatto con una compagna che è nella direzione del movimento di Sanders. Dai suoi racconti comprendiamo che il partito democratico americano è una macchina di potere terribilmente governativa, non reagisce alle novità, riprende temi socialdemocratici classici che non funzionano.
Black Lives Matters è il futuro. È l’espressione di un movimento senza leadership.
Ce ne sono tanti nel mondo e la sinistra dovrebbe capirli a fondo: quelli indigeni, ad esempio, che puntano sulle proprietà comuni, sono esperienze formidabili. E i nuovi movimenti femministi e la loro fortissima soggettività.
È la forma stessa del capitalismo che rivela queste nuove forze produttive e queste esperienze di rottura. Non è solo un discorso marxista, è un discorso realistico, se si vuole uscire dal «secolo breve», una volta per sempre, fuori dalla sua agonia.
Lei parla sempre dal punto di vista dei movimenti. In Assembly analizzate, senza reticenze, la loro crisi e suggerite di non sottovalutare «il potere durevole di coloro che combattono e sono sconfitti». Cosa intendete dire?
Torniamo al paradosso di Corbyn: i Sessantottini che si ritrovano con i giovani di oggi. Basta un fischio e tornano fuori quelli che sono stati sconfitti allora. Perché hanno imparato nelle lotte la generosità, la cooperazione, hanno fatto trionfare la solidarietà. Questi sono vizi che una volta presi non ti mollano più.
Se si potesse fare una storia foucaultiana dei movimenti in Italia si capirebbe di quali quantità di «cinici» , di militanti comunisti arrabbiati il paesaggio è pieno: intendo gente che si faceva costruire dalla «volontà di sapere» e dall’azione rivoluzionaria, e così amava gli altri e la vita.
Scrivete che dal 2001 a oggi i movimenti hanno affermato un nuovo inizio per la sinistra, ma hanno dimostrato una «povertà organizzativa» e non sono stati all’altezza del problema che hanno posto. Non c’è il rischio di ripetere le vecchie sconfitte senza avanzare di un millimetro?
Bisogna, una volta per tutte, liberarsi dall’illusione che dai movimenti si debba trarre qualcosa. Quasi sempre i movimenti esprimono la fine di un discorso, non producono un evento, ma lo terminano. Il Sessantotto non è stato un evento, ma una costruzione. Perché dietro c’erano gli anni Sessanta, c’era già da tempo una politica di massa a livello mondiale. In Italia questa politica è stata talmente potente da durare dieci anni, passando dal movimento del 1977. I movimenti oggi non capiscono che devono costruire, non che devono raccogliere.
Ho sentito i compagni che uscivano da Genova, o dalle lotte dell’università, dire che dopo le manifestazioni era tempo di fare un’organizzazione. Ma se non lo avevano creata fino ad allora non l’avrebbero mai più fatta! Sarebbero stati solo identificati dalla polizia come persone da abbattere. Bisogna rompere questa idea che il movimento forma il partito, la coalizione, un seguito. I movimenti formano la forza, e questa forza va riconosciuta.
I movimenti sono la strategia. Non nascono per spirito infuso, o per un mistero che si incarna nella società, si costruiscono concretamente, passo dopo passo, insieme a migliaia di persone, ciascuno a partire da sé. La politica si costruisce insieme.
I Soviet per noi restano un modello da pensare, nacquero in un modo di produzione specifico, assemblando forze produttive e sociali. In un mondo completamente diverso, restano un dispositivo potente.
I Soviet sono attuali?
Oggi si devono costruire istituzioni non sovrane e non proprietarie. Funzionerebbero come la gestione dell’acqua bene comune, nelle battaglia contro la violenza poliziesca in Francia o negli Stati uniti, nelle grandi lotte indigene nell’America Latina, nelle lotte femministe.
L’invenzione di una nuova struttura politica non può nascere che dal collegamento tra queste forze. L’istituzione non nasce dal sovrano, ma dalla necessità di stare insieme, di produrre e vivere insieme.
Questa era l’idea fondamentale dei Soviet: organizzare il modo in cui si sta insieme in una società industriale, dove la cooperazione sociale è avanzata e ha la capacità di esercitare potere attraverso la costruzione politica di una forza produttiva.
Per descrivere questa costruzione nel libro usate un’espressione curiosa: «imprenditorialità del comune». Che cosa significa?
In alcune recensioni anglosassoni ci viene rimproverato questo concetto: l’impresa non può essere strappata al neo-liberismo. E invece penso che oggi il rapporto tra imprenditorialità e istituzione – l’instituere – sia qualcosa che vada studiato fino in fondo. Il lavoro è sempre istitutio. Questa capacità oggi è massacrata oppure nascosta da un falso concetto di libertà.
Creare un’impresa significa lasciare libera la forza lavoro di organizzarsi. È questo il discorso politico che il capitalismo sequestra ai lavoratori. Noi invece crediamo che si inizia a fare politica quando la forza lavoro conquista la capacità di organizzarsi produttivamente.
Tutto questo passa da un partito? È questo che sostenete?
Assolutamente no. Oggi l’autonomia del politico non è più quella leninista, oggi è il populismo. In ogni epoca l’autonomia del politico si qualifica in qualche modo, se si vuole evitare di assumerla in termini generici. E oggi l’autonomia del politico è stata ridotta a un gioco discorsivo che usa le categorie istituzionali e ha l’obiettivo di costruire un popolo sottomesso.
Leggo quello che succede in Italia dove la legge elettorale è da tempo diventata il luogo centrale di questo uso discriminatorio del politico. È una manipolazione pura del popolo e del consenso.
In gioco non c’è solo un criterio minimo di rappresentanza, che mi sembra sempre più in crisi, ma qualcosa di più profondo: si vuole impedire alle persone di sperimentare nuovi modi istituzionali e produttivi per governarsi da sé.
La socialdemocrazia è in crisi e sono in molti a credere che possa essere superata attraverso una declinazione di «sinistra» del populismo. Ritiene che Podemos o il Labour di Corbyn possano essere interpretati in questo modo?
Quello di sinistra è un caso del populismo di «sostituzione». Dubito che questa logica, teorizzata dal filosofo argentino Ernesto Laclau, possa mai reinventare formule diverse da quelle del «socialismo nazionale». In Spagna, dentro Podemos, si è sviluppato un grande dibattito su questo tema. E ha vinto la tendenza nazional-popolare.
La polemica è avvenuta con i movimenti sulla funzione del partito: se si dovessero sostenere i movimenti e creare una coalizione oppure se si dovesse essere un partito classico che inventava il suo popolo. Ha vinto il progetto di sostituzione della socialdemocrazia, non un progetto di innovazione della sinistra.
All’altro capo del populismo, Alice Weidel dell’Afd in Germania è un caso clamoroso di rovesciamento delle istanze dei movimenti: lesbica, sposata con una cittadina srilankese, ha lavorato per Goldman Sachs e Allianz, sostenitrice di politiche xenofobe, islamofobe ed è contro matrimoni omosessuali. Cosa rappresenta una simile figura?
Rappresenta il vuoto che si riproduce. Come altri personaggi non è un soggetto, ma un prodotto. Nasce sollecitando i peggiori istinti e arriva alla contraddizione più clamorosa con quello che è realmente nella sua vita. A questo in fondo porta il populismo: creare il popolo anche contro ciò che si è. A questa contraddizione si lega il concetto di nazione e poi, nell’ordine, quello di appartenenza regionale e famigliare. Così si articolano forme di proprietà e confine. Il rischio forte è quello della corruzione.
Nella mia vita ho visto molte persone fare cose terribili in nome della famiglia, fino alle peggiori forme di corruzione. Dietro queste appartenenze, ci sono solo barbarie e tribalismi.
Quali sono gli altri populismi?
Trump ne è un esempio purissimo. A suo modo Macron in Francia gli assomiglia, anche se si comporta da tecnocrate che gestisce al centro destra e sinistra costituzionali secondo il progetto di Juppé.
A destra e a sinistra, ci sono populismi «rilavati». In Mediaset nel caso di Berlusconi, nella rete nel caso dei Cinque Stelle. Melenchon in Francia distingue tra sovranità popolare, quella della rivoluzione del 1789, e sovranismo che sarebbe un concetto di destra; tra l’ideale di «nazione» e quello di «nazionalismo in quanto etnicismo».
In questo e in altri casi, come tra i bolivariani sudamericani, non si riflette mai abbastanza sul fatto che, nel populismo, comandano solo i dominanti e i ricchi che parlano in nome dei molti.
È anche possibile che questa idea di «populismo» produca un contraccolpo sui movimenti, in particolare sull’immigrazione, amplificando un senso comune xenofobo e razzista. Un rischio che si intravede anche nel Labour inglese o nella Linke tedesca. Come spiega questa ambivalenza?
Esistono due idee che non toglieremo mai alla socialdemocrazia, erede del «secolo breve»: la proprietà e il confine. È un batterio letale, oggi impiantato nel cuore dell’Europa, quando si ergono muri o si spostano i confini oltre il Mediterraneo mandando a morire i migranti nei Lager in Libia.
Rousseau diceva che il più grande delinquente che sia nato è quello che ha detto: «Questa cosa è mia». Ma esiste un delinquente ancora più grande, Romolo, che disse «Questo confine è mio». Sono la stessa cosa: proprietà e confine.
La socialdemocrazia ha maturato questa cultura dopo il 1848, con la rivoluzione romantica. Penso a Mazzini: lui è stato, da questo punto di vista, il primo socialdemocratico: sosteneva la repubblica popolare e la centralità nazionale, due elementi che hanno sempre avuto una sintesi reazionaria, nazional-popolare. La seconda Internazionale socialista fu attraversata da questo spirito contro l’internazionalismo comunardo e cercò di coniugare nazionalità e rivoluzione.
Di contro, il bolscevismo è stato formidabile dal punto di vista della rivoluzione mondiale perché ha unificato comunismo, anti-imperialismo e anticolonialismo. La tragedia dell’anticolonialismo è stato il ritorno del nazionalismo.
Ciò ha comportato un errore di rilievo, e ancora oggi ricorrente nelle politiche centriste variamente declinate: pensare che l’alleanza del proletariato con le classi medie e progressiste sia un passaggio strategico, e non meramente tattico. Le declinazioni del populismo attuale ripetono lo stesso errore: pensano che il concetto di nazione cancelli quello di classe. È un problema con il quale ci dovremo ancora confrontare.
Sempre più spesso si sente dire che l’alternativa al neoliberismo e alla crisi è il lavoro, la piena occupazione, il keynesismo, le nazionalizzazioni. È una soluzione?
Sono ipotesi che restano confinate nell’agonia del «secolo breve» in cui ancora ci troviamo. Discutiamo ancora di alternative che sono distrutte: socialismo statale e nazionale e liberismo proprietario e privato. Restiamo ostaggio della distinzione tra privato e pubblico e non vediamo cosa gli è passato sotto, e attraverso, tra il Novecento e oggi.
E che cosa è accaduto?
La disfatta dell’ideologia del privato e del pubblico a causa della trasformazione del modo di produzione. Esiste un nuovo assemblaggio delle forze produttive determinato dalla trasformazione del lavoro che lo ha reso comune e singolarizzato, togliendolo al privato e al pubblico. È una forza-lavoro che funziona solo in modo cooperativo. Cioè in maniera sempre più comune. Oggi il problema è l’organizzazione della produzione sociale e la distribuzione del reddito, non il pieno impiego.
La distinzione tra lavoro/impiego e nuova capacità lavorativa e cooperativa è l’elemento centrale del dibattito e comporta radicali conseguenze di carattere fiscale, politiche sociali, industriali profondamente diverse rispetto al passato.
A sinistra e nel sindacato si sostiene che uno Stato «innovatore» sarà capace di creare tecnologie rivoluzionarie nella green economy, le telecomunicazioni, nanotecnologia o farmaceutica. Le nuove istituzioni di cui parlate nel libro passano dallo Stato e in che rapporto stanno con questa categoria che torna ad avere successo?
Ben venga questo Stato, gli faccio gli auguri. Mi si permetta tuttavia di notare che questi settori sono sul mercato, organizzate come macchine di estrazione del valore prodotto socialmente, e in questa figura protette, pur malamente, dallo Stato.
In Assembly, ci chiediamo se queste meraviglie possano essere sottoposte a scelte e decisioni democratiche. Rispondiamo di no. Finché non sarà riconosciuto il regime di sfruttamento estrattivo e proprietario (brevetti, rendite finanziarie, organizzazioni monetarie) in cui queste industrie operano, e fino a quando a questo riconoscimento non segua un processo democratico di riappropriazione dei beni comuni.
Ormai è tempo di riappropriazione del comune da parte dei suoi produttori, e di ri-orientamento democratico della gestione del comune: non è lo Stato, ma sono i produttori che devono dire a cosa servono queste tecnologie e quali vantaggi recuperane o quali svantaggi scontare.
La forza lavoro è sempre più organizzata dalle piattaforme digitali: Uber, Deliveroo oppure Task Rabbit. Il potere dei «signori del silicio» è così ampio da spingere a credere che dall’algoritmo passi un’idea popolare, e trasparente, della democrazia. A questo porterà la rivoluzione digitale?
In queste piattaforme i lavoratori non pensano di usufruire di un più alto grado di democrazia! E lottano e resistono allo sfruttamento bestiale.
È importante tuttavia che si ponga il problema: è possibile rovesciare il funzionamento dell’algoritmo di comando delle piattaforme digitali? Lungi dall’immaginare utopici rovesciamenti delle piattaforme digitali in circuiti cooperativi, sarà possibile dominare quei mostri solo smantellando le condizioni politiche nelle quali l’algoritmo è imposto: quelle del diritto privato e della sua legittimazione statale.
Mark Zuckerberg di Facebook ha ammesso l’importanza del reddito di base. Sarà la Silicon Valley a realizzare quella che è definita un’utopia concreta?
Zuckerberg ci obbliga a studiare le forme nelle quali le tecnologie e l’attività lavorativa s’intrecciano nella produzione e nell’uso dei social media. È là, in quello spazio, che paradossalmente ci indica la possibilità di far rinascere la democrazia. Credo che questo spazio sia quello sul quale va riaperta la ricerca dei rivoluzionari: è lo spazio che,mutatis mutandis, 150 anni fa, Marx analizzò nel primo volume de Il Capitale.
È là, dove l’uomo s’incontra con lo sfruttamento di nuove macchine e di nuovi padroni, che rinasce la classe e si propone la rivoluzione.
Insomma lei è convinto che solo un reddito di base ci salverà?
Ma no, è ovvio che in sé non può risolvere il problema. È l’elemento preliminare, e comunque centrale, per la riorganizzazione sociale fondata sul comune e sul superamento delle categorie della proprietà privata e pubblica. È sul terreno finanziario che bisogna confrontarsi.
Il problema è il comando della finanza. Il palazzo d’Inverno oggi sono le banche centrali.
*** Toni Negri: le lotte e i libri
«I movimenti sono l’emblema di quel processo rivoluzionario continuo attraverso il quale il capitale ha voluto imporre il proprio potere sulla vita – ma dove la vita ha violentemente espresso il suo rifiuto» ha scritto Toni Negri nella prima parte della sua autobiografia («Storia di un comunista», Ponte Alle Grazie).
Ottantaquattro anni scanditi dal rapporto con il movimento operaio e quelli sociali.
Politica, ricerca, conflitti, l’arresto avvenuto il 7 aprile 1979 insieme a centinaia di militanti di «Autonomia Operaia» nell’ambito del «teorema Calogero», definito da Rossana Rossanda su Il Manifesto «un’operazione politica bassa, la più bassa della magistratura della repubblica».
Oggi Negri è uno dei filosofi politici più influenti, autore di oltre 60 libri, tradotto in molte lingue. Con Michael Hardt ha scritto da «Il lavoro di Dioniso» (Manifestolibri, 1995) a «Assembly» (Oxford University Press, 2017). E poi «Impero» (Rizzoli, 2001), «Moltitudine» (Rizzoli, 2004), «Comune» (Rizzoli, 2010), «Questo non è un manifesto» (Feltrinelli, 2012)
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