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Tommaso Santambrogio: «Spero che il cinema aiuti a superare la fobia dell’altro»

Tommaso Santambrogio: «Spero che il cinema aiuti a superare la fobia dell’altro»Tommaso Santambrogio

Intervista «Gli oceani sono i veri continenti» inaugura le Giornate degli autori e sarà nelle sale da domani, 31 agosto. Conversazione con il regista Tommaso Santambrogio

Pubblicato circa un anno faEdizione del 30 agosto 2023
Una scena da «Gli oceani sono i veri continenti»

«C’è qualcosa di estremamente poetico, e allo stesso tempo tragico, nel separarsi dalla terra che più si ama» afferma Tommaso Santambrogio, regista milanese classe 1992. Il suo lungometraggio d’esordio, Gli oceani sono i veri continenti, inaugura oggi le Giornate degli autori – sarà poi nelle sale già da domani, distribuito da Fandango. Al centro del film, evidentemente frutto di un lungo lavoro, c’è Cuba. La solitudine delle strade, le piogge scroscianti, una malinconia che si amplifica nelle ricche immagini cercate da Santambrogio come nelle vite dei protagonisti. Non c’è alcuna risoluzione nelle tre storie narrate, l’accettazione della nostra condizione è l’unica possibilità.

Il tema centrale del film è quello della separazione. Perché lo ha scelto?

Oltre ad appartenermi da un punto di vista personale, è un tema che trova un grande riscontro nella realtà cubana. È un Paese dove la tragedia umana di separazioni forzate, legate alla migrazione, è una costante. La pandemia e la crisi economica hanno portato negli ultimi anni a un vero e proprio esodo, ancor di più nei contesti di provincia come quello che ho voluto raccontare, nell’entroterra a San Antonio de los Baños. La prima volta che ero stato a Cuba, da bambino, mi aveva già colpito l’immagine di persone che si separavano, quindi quando ci sono tornato sapevo di voler lavorare su quest’idea.

Come si è svolto il processo di scrittura?

Quando si vuole raccontare un altrove, un luogo che non è casa, bisogna avere una propensione nei confronti dell’altro, un’apertura verso le voci altrui. Il processo artistico che ne è derivato è stato influenzato da tutto ciò, nonostante abbia impresso poi il mio stile alla narrazione. Le parole, l’urgenza, le dinamiche che sono emerse tra i vari personaggi sono anche opera degli stessi attori, hanno contribuito quasi come coautori alla realizzazione di questo lavoro. È un incontro tra la sceneggiatura e la realtà che emerge e che permea quello che succede davanti alla macchina da presa.

A Cuba ha conosciuto e lavorato con Lav Diaz, il regista filippino era anche co-protagonista del suo precedente lavoro «Taxibol». Come ne è stato influenzato? La scelta del bianco e nero è legata a lui?

Sul bianco e nero devo dire di no, avevo già l’idea di filmare così prima di conoscere Lav. Per poter raccontare Cuba bisogna sciogliere la patina, il brand a cui viene associata – ovvero un immaginario utopico rivoluzionario o un immaginario turistico di mojito e macchine d’epoca – inserire un filtro come quello del bianco e nero può aiutare a ricondurla alla realtà. Lav Diaz è stato comunque un grande mentore per me, quello che più mi ha trasmesso è il tipo di lavoro con la troupe, la lotta per la libertà della propria espressione anche a livello produttivo. Mi ha aiutato a fare a meno di molte sovrastrutture che vengono inculcate quando ci si approccia al cinema.

In «Taxibol» Lav Diaz dice: il cinema è parte di un movimento per cambiare le cose. È d’accordo?

Penso che il cinema sia sempre politico, anche quello che non si dichiara tale. Wenders diceva anzi che è il più politico di tutti, perché la fairytale ci illude che lo status quo non si può cambiare, che va tutto bene com’è. Per come lo vivo io comunque ci deve essere un discorso sociale, per realizzare un film si impiegano anni della propria vita e sarebbe assurdo per me realizzare qualcosa che non punti ad avere un impatto sulla realtà.

Una dimensione ulteriore del film è quella dedicata al teatro e a uno spettacolo di marionette in particolare. Era interessato a intrecciare diversi linguaggi?

Mi piace del cinema il fatto che sia composto da discipline e arti diverse che si incontrano. Personalmente mi interessa sperimentare e lavorare anche sul confine del linguaggio, l’arte dei burattini viene da uno spunto della stessa attrice Edith Ybarra Clara. Abbiamo cominciato a immaginare come poteva evolvere il suo personaggio, cosa poteva trasmettere, e siamo arrivati a volerlo caratterizzare tramite questo spettacolo, visto che lei è come se non riuscisse ad esprimere il suo bisogno, a motivarlo, e lo racconta nell’unico modo in cui riesce, come spesso avviene per la gente d’arte. Le immagini dei burattini per me sono quasi metafisiche, sul confine tra metacinema, metateatro e realtà. E poi lo spettacolo ha una connotazione universale, riassume in qualche modo le altre tre storie.

Ci si trova bene in questa posizione un po’ particolare di regista italiano che filma all’estero? Sarà anche il suo futuro?

Vorrei lavorare anche in Italia, ma allo stesso tempo la spinta verso l’altrove, lo sconosciuto mi stimola molto. Sicuramente le storie che hanno a che fare con il viaggio e con umanità differenti mi incuriosiscono, mentre da noi c’è una relazione particolare con ciò che è «straniero», quasi una fobia. I discorsi nazionalisti, che sembrano doverci proteggere da un’invasione, spero possano essere superati anche con il contributo del cinema che può permettere allo spettatore di identificarsi anche con chi all’inizio si considera lontano.

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