Michael Pillsbury è il direttore del Center of Chinese Strategy dello Hudson Institute, ma soprattutto è stato consigliere dell’amministrazione americana riguardo la Cina. Da Nixon a Obama, Pilssbury è sempre stato considerato uno dei più attenti osservatori della Cina.

È stato anche impegnato sul campo, sia in termini di trattative economiche e militari, sia di intelligence. La sua conoscenza della Cina è ampia, supportata dalla conoscenza della lingua e dalle amicizie che ha saputo sviluppare nel corso della sua trentennale esperienza diplomatica.

Pillsbury ha fatto parte di quella frangia di studiosi che è sempre stata accusata di essere benevola con la Cina, tanto da guadagnarsi l’appellativo di «panda huggers». Questo insieme di studiosi, diplomatici, intellettuali americani, si sono sempre espressi in modo favorevole all’avvicinamento degli Usa alla Cina. Pillsbury come tanti altri studiosi e intellettuali tra gli anni 80 e i 90, ha sempre favorito una visione positiva della crescita cinese, sottolineandone «l’ascesa pacifica» e i vantaggi che una Pechino forte economicamente, avrebbe potuto portare anche agli Stati uniti, convinti che la Cina avrebbe effettuato quelle riforme politiche promesse all’epoca dei primi contatti con Washington.

Oggi Pillsbury, come Shambaugh, per certi versi, ha cambiato idea: la Cina è un pericolo per gli Usa, perché non punta a una coesistenza in un mondo multipolare; Pechino ha intenti egemonici, che a detta di Pillsbury erano davanti agli occhi di tutti, fin dall’inizio. E nel suo libro, The Hundred-Year Marathon: China’s Secret Strategy to Replace America as the Global Superpower (2015, 22 $) ripercorre le tappe dell’avvicinamento tra Cina e Usa, rileggendole alla luce dell’attuale potenza economica e strategica cinese.

Non a caso il libro si apre con la famosa frase di Confucio, secondo la quale non c’è spazio, nel cielo, per due soli. Così come non c’è spazio, nel mondo, per due imperatori.

Pillsbury utilizza i racconti cinesi che si riferiscono agli Stati combattenti (dal 453 al 221 a.C.) per spiegare, a suo modo di vedere, la strategia cinese, sottolineando l’utilizzo dell’inganno e del sotterfugio da parte di Pechino, per arrivare ai suoi scopi. Del resto proprio l’inganno, costituisce una delle tattiche più utilizzate nella strategia militare cinese per ribaltare a proprio favore una situazione negativa.

Secondo Pillsbury la Cina, partendo da una posizione inferiore, avrebbe irretito gli Stati uniti, attraverso il soft power, senza che l’amministrazione americana si rendesse conto dei rischi di tale operazione. Pechino avrebbe convinto, nel tempo, gli Stati uniti a cooperare in termini economici, tecnologici, scientifici e militari, ponendosi sempre in una posizione secondaria, nascondendo in realtà il proprio sogno egemonico. Si tratta di una vera e propria rilettura su mezzo secondo di rapporti diplomatici e Pillsbury la conduce con grande passione, anche se in alcuni punti appare esagerare il presunto doppio gioco cinese, affidandosi a fonti militari – i falchi cinesi – che appaiono rilevanti, ma sul cui reale peso all’interno dei misteriosi equilibri del Partito comunista c’è grande dibattito. Pillsbury infatti, per quanto all’interno di certi meccanismi, non può che specificare un dato incontrovertibile: nessuno sa veramente cosa accade all’interno del Partito comunista cinese.

Pillsbury ricorda anche un sospetto nell’amministrazione americana, corroborata dai consigli dei «panda huggers». Specie nei primi anni delle relazioni diplomatiche, recuperate dagli Usa in una visione anti sovietica, a Washington c’era la sensazione che spingere la Cina verso una transizione democratica, avrebbe causato il collasso del paese, con rischi evidenti per il futuro. Per questo ci si fidò, sostiene Pillsbury, delle promesse fatte dai cinesi.