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«The Donald» ha riaperto la strada per ottenere i 1.237 delegati necessari

«The Donald» ha riaperto  la strada per ottenere  i 1.237 delegati necessari

Verso la nomination Sullo sfondo rimane la percezione sfavorevole che una larga maggioranza di americani ha di lui

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 21 aprile 2016

È stato un «supermartedì» per Donald Trump, è stato un pessimo martedì per il partito repubblicano. La vittoria del palazzinaro di New York nelle primarie del suo stato, dove ha ottenuto circa il 60% dei suffragi e 89 dei 95 delegati alla convenzione di Cleveland, gli riapre la strada per la quota di 1.237 delegati, necessaria per ottenere la nomination a candidato del partito alla prima votazione.

Secondo i calcoli di Fivethirtyeight, Trump dovrebbe arrivare alla convenzione con 1.191 delegati, sufficienti per dargli la maggioranza se un piccolo gruppo di delegati non vincolati a un particolare candidato voterà per lui. Naturalmente è possibile che dei risultati mediocri nelle primarie dei prossimi due mesi invece non gli permettano di raggiungere l’obiettivo. La vittoria di Trump rimane comunque probabile e apre prospettive non entusiasmanti per il partito, per tre ragioni distinte ma tutte ugualmente importanti: il meccanismo di voto basato sul collegio elettorale, la trasformazioni demografiche degli Usa e la percezione sfavorevole che una larga maggioranza di americani ha di lui. Tutto può succedere, ma i fattori fondamentali dell’elezione presidenziale quest’anno sono favorevoli ai democratici.

Il primo fattore consiste nell’elezione indiretta: il presidente non viene eletto dai cittadini ma da delegati stato per stato. Questi sono attribuiti con il meccanismo «chi vince prende tutto», anche se la differenza tra i due candidati maggiori fosse di un solo voto: fu grazie a questo che nel 2000 George W. Bush vinse in Florida, e divenne presidente, pur avendo raccolto oltre mezzo milione di voti in meno di Al Gore su scala nazionale. Da alcuni anni, la geografia elettorale favorisce i democratici, che hanno una base sicura sulle due coste e nel Midwest. Non a caso, Obama nel 2012 ottenne solo il 51% dei voti dei cittadini ma ben il 61,7% dei voti nel collegio elettorale.

Ancora più importante, le tendenze demografiche di fondo sono favorevoli ai democratici per la crescita delle minoranze etniche. Si tratta di un fattore spesso ignorato: nel 1968, gli Usa avevano circa 25 milioni di neri e ispanici, circa il 12% della popolazione. Nel 2008, questi due gruppi raccoglievano, insieme a nativi americani ed asiatici, 104 milioni di persone, il 36% della popolazione. 50 fa c’erano meno di 9 milioni di ispanici, nel 2013 erano diventati 54 milioni. Gli americani di origine asiatica da due milioni sono passati a 16 milioni. Questa crescita è dovuta non solo all’immigrazione clandestina contro cui Trump lancia i suoi strali: la dinamica fondamentale consiste nei diversi tassi di natalità dei diversi gruppi etnici. Afroamericani e latinos fanno più figli di quanti ne facciano i bianchi. Il risultato netto è che ogni anno neri e ispanici crescono di circa 1.700.000 persone, unicamente per ragioni demografiche.

Se i repubblicani hanno potuto sfruttare, anche nel recente passato, la carta razziale contro i democratici, in novembre la situazione sarà rovesciata: le minoranze saranno con ogni probabilità fortemente mobilitate contro un candidato xenofobo e razzista come Trump, il portabandiera dei bianchi di mezza età e senza un’educazione universitaria. Un’alta affluenza alle urne dei latinos in stati come la Florida, il North Carolina, la Virginia, il New Mexico e l’Arizona significa far vincere il candidato democratico in questi stati, chiunque esso sia. Se, com’è probabile, il candidato sarà Hillary Clinton, questo non potrà che rafforzare il gender gap tra democratici e repubblicani, cioè la tendenza delle donne, in particolare giovani e non sposate, a votare per i democratici.
Infine, ci sono le percezioni dei candidati.

Quest’anno i sondaggi sulla personalità dei due probabili contendenti segnalano una scontentezza diffusa, un rigetto delle scelte dei partiti: 7 americani su 10 hanno un’opinione negativa di Trump, mentre il 55% ha un’opinione negativa di Hillary Clinton. È una situazione senza precedenti quella che vede entrambi i candidati dei due partiti maggiori incapaci di trovare un consenso maggioritario nell’elettorato, ma in ogni caso anche questo elemento favorisce i democratici: per quanto Hillary sia poco amata non è un candidato che respinge oltre due terzi degli elettori.

Questi tre fattori, naturalmente, si comibinano e rafforzano l’uno l’altro: negli stati in politicamente in bilico tra un partito e l’altro, i cosiddetti swing states, quest’anno per i repubblicani sarà molto difficile ottenere buoni risultati, non a caso i boss del partito temono l’effetto negativo di un candidato Trump anche sul voto per il Senato e per la Camera: il primo, in particolare, potrebbe tornare a maggioranza democratica.

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