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Tenere il Colle sotto scacco è il programma della destra

Tenere il Colle sotto scacco è il programma della destraIl deposito del simbolo di Fratelli d'Italia ieri al Viminale – Ansa

Elezioni Meloni rivendica il presidenzialismo. E anche il simbolo con la fiamma: il nostro orgoglio. Berlusconi spiega ancora la gaffe. Salvini in ombra tenta con la preghiera elettorale

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 14 agosto 2022

Bersagliato dagli avversari, circondato dal malumore degli alleati che certo non hanno gradito il passo falso, Berlusconi si affida a Facebook: «Sono amareggiato e indignato per la mistificazione delle mie parole». Come si può imputare proprio a lui «un atteggiamento ostile» nei confronti di Mattarella, tanto più quando ci si allea col Di Maio che per Mattarella voleva l’impeachment? Il Cavaliere afferma di aver solo «risposto a una domanda con una considerazione ovvia». Va da sé, infatti, che dopo un eventuale passaggio al presidenzialismo «il capo dello Stato e con lui anche il governo e probabilmente lo stesso parlamento dovranno essere rinnovati».

In parte il Cavaliere ha ragione, anche se non avrebbe dovuto in nessun caso definire le eventuali dimissioni «necessarie», tutt’al più «opportune». La polemica è comunque un po’ tirata per i capelli, tanto più che la riforma non entrerebbe in vigore prima di due o tre anni. Ma il fuoco di sbarramento di tutta l’altra metà campo non guarda così lontano, non teme quel che forse succederà chissà quando. Le paure sono molto più ravvicinate. Lo stesso Quirinale temeva una campagna di delegittimazione subito dopo l’eventuale vittoria della destra: un fuoco di fila di polemiche, a partire dalla rielezione di Mattarella a opera di un parlamento sul quale non era stato ancora operato il taglio dei parlamentari. «A molti sfugge un particolare: la prima a chiedere l’impeachment fu proprio Meloni e quella di Berlusconi sembra proprio una mossa per intimidire Mattarella sul potere di nomina dei ministri», ricorda il costituzionalista del Pd Stefano Ceccanti. Berlusconi, insomma, avrebbe solo anticipato l’attacco.

L’obiettivo minimo dell’«avviso di sfratto» sarebbe tenere l’inquilino del Quirinale sotto scacco per condizionarne le scelte, in particolare per quanto riguarda la nomina dei ministri che in caso di vittoria la destra gli proporrà. Quello di massima, invece, sarebbe costringerlo davvero alle dimissioni con larghissimo anticipo sull’eventuale riforma presidenzialista. Il Pd è infatti convinto che la strategia della destra sarà quella dello winner takes all ed è terrorizzato dall’idea che, con il 66% dei parlamentari, possa eleggere a piacimento i giudici costituzionali. In parte si tratta solo di fantasmi, l’ipotesi delle dimissioni coatte a breve essendo poco realistica. Ma in parte pressioni e tentativi anche ruvidi di condizionamento sono davvero prevedibili.

La riforma in sé è tutt’altra cosa, anche perché si articolerebbe comunque su tempi ben diversi. Ieri Giorgia Meloni ha confermato l’intenzione di insistere sul presidenzialismo: «Per la sinistra è un problema, per alcuni addirittura un pericolo. FdI ritiene che gli italiani debbano avere il diritto di eleggere direttamente il capo dello Stato e di scegliere da chi farsi governare per mettere fine ai giochi di palazzo».
La reazione del Pd in campagna elettorale non può che essere di chiusura totale ma nel prossimo parlamento il dialogo sulle riforme istituzionali sarà invece necessario e anzi inevitabile, anche perché Renzi ha già inviato un segnale preciso dicendosi contrario al presidenzialismo ma favorevole all’elezione diretta del premier. Ma soprattutto perché anche agli occhi degli esponenti più avveduti del Pd è chiaro che la crisi di sistema deve essere affrontata e non lo si potrà fare solo con qualche cerotto.

La leader di FdI ha anche respinto al mittente, cioè alla sopravvissuta ad Auschwitz e senatrice a vita Liliana Segre, l’invito a eliminare la fiamma del vecchio Msi dal simbolo del suo partito. Ieri lo ha presentato: la Fiamma sta lì. L’ex missina ha voluto andare oltre e rispondere direttamente alla Segre: «Eccolo il nostro bel simbolo del quale andiamo fieri». Tanto per chiarire che la sua rottura col passato è molta diversa da quella operata a suo tempo da Fini e che un partito nato e cresciuto come una sorta di «Rifondazione missina» almeno per ora non intende rinnegare se stesso.
Messo un bel po’ in ombra dall’oggettivo protagonismo della sorella d’Italia e dall’invadenza del Cavaliere, Salvini prova a tornare in primo piano con una specie di preghiera leghista. Un «Credo» recitato sui social, un atto di fede nel quale il leader leghista enumera con abbondanza di retorica i suoi valori, tutti ben noti, e i suoi punti di programma cardine: fisco «equo», certezza della pena, eliminazione della Fornero, lotta senza quartiere agli sbarchi clandestini, tutela della famiglia, nucleare di ultima generazione. Però nel Credo di Salvini il presidenzialismo non c’è.

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