Un’immagine della San Luis Valley del Colorado
Cultura

Ted Conover, dentro il lato selvaggio della libertà

Un’immagine della San Luis Valley del Colorado – Ted Conover

L'intervista Parla il giornalista e docente alla New York University autore di «Cheap Land Colorado» per Black Coffee. San Luis Valley, una comunità che resiste in condizioni proibitive, Trump è popolare ma i più non voteranno. «Nella prateria c’è una tensione interiore, come di fronte alle barriere: amo attraversare la terra infinita, ma voglio un recinto per la roulotte»

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 16 luglio 2024

Una sorta di valle alpina delimitata da creste innevate. La San Luis Valley del Colorado possiede una bellezza selvaggia: migliaia di chilometri di prateria d’alta quota che ricordano gli scenari dei classici western di Hollywood. Un orizzonte imponente che nasconde però una realtà durissima, che si può forse annoverare tra quelle sinistre metafore che la realtà sociale americana riesce a confezionare per esprimere in forma compiuta, e talvolta affascinante, le proprie contraddizioni.

Fin dagli anni Settanta è infatti iniziata la vendita, per qualche migliaio di dollari, di lotti di prateria di cinque acri, terra arida e priva di alcun tipo di servizio – elettricità, acqua, fognature – che ha però attirato una comunità di un migliaio di persone che ancora oggi vive in roulotte, caravan o edifici tirati su in qualche modo.

Una piccola comunità, il cui sogno di libertà sembra essersi trasformato in un incubo di lotta quotidiana per la sopravvivenza, formata da persone che hanno però scelto di restare ad ogni costo. Bianchi e neri, spesso conservatori e che possiedono molte armi da fuoco, ma che si mantengono coltivando marijuana o soffrono di una qualche dipendenza.

Tra loro, un reduce dell’Irak e una donna che ha seguito fin qui un gruppo separatista africano, due donne dell’Oklahoma che hanno lasciato i mariti per vivere insieme o famiglie tradizionaliste come i Gruber che hanno scelto di far studiare in casa le loro figlie.

È questo il mondo che racconta, dopo esserne entrato in qualche modo a far parte, Ted Conover in Cheap Land Colorado (traduzione di Sara Reggiani, Black Coffee, pp. 310, euro 18), un libro straordinario che descrive l’amore per la libertà, l’allergia ad ogni forma di autorità, ma anche i limiti e i contrasti che tali sentimenti celano in sé.

Professore di giornalismo alla New York University, già finalista al Pulitzer, Conover indaga da anni il lato in ombra del Paese, scegliendo di vivere, di «immergersi» letteralmente, nei contesti che intende raccontare, lo ha fatto, per non citare che alcuni tra la decina di libri che ha all’attivo, come sorvegliante nel carcere di Sing Sing o condividendo le peripezie degli indocumentados tra Messico e Stati Uniti.

Un ritratto di Ted Conover firmato da Margot Guralnick

Le vicende che racconta in «Cheap Land Colorado» sembrano tratte da un nuovo capitolo della conquista del West o della corsa all’oro, solo che in questo caso tutto inizia negli anni ’70 del 900 con una speculazione su vasta scala: il libro indaga ciò che si nasconde da sempre nel mito della frontiera e nello stesso sogno americano?

A volte in mezzo a questa prateria del Colorado ti senti proprio come un colono: il primo a costruire una casa (o a parcheggiare la roulotte) in un posto davvero particolare, molto probabilmente senza che ci sia traccia di nessun altro a perdita d’occhio.

In questa zona non mancano cavalli selvaggi, antilopi e coyote: perciò non è difficile immaginare di essere tornati indietro nel tempo. E tale contesto aiuta anche a spiegare le numerose armi da fuoco che possiede chi vive lì.

Ovviamente, però, la presenza dei cellulari e dei «giardini» dove si coltiva la marijuana grazie al propano, fanno capire che non si tratta affatto della «frontiera». E il mio libro cerca proprio di catturare la cultura del luogo così com’è adesso, misurando per questa via tutta la differenza che intercorre con il «sogno» e il mito.

Alcune persone sono sorprese da quanto sia difficile vivere lì, e sentono di essere state derubate o truffate dalle società fondiarie, o dalle autorità della contea locale, che cerca di far rispettare le regole sul sistema di smaltimento delle acque reflue (visto che non ci sono fognature) o sull’incendio dei rifiuti. Ma direi che la maggior parte delle persone è comunque entusiasta di possedere la propria casa, invece che di dover pagare un affitto. In genere costoro ritengono anche che vivere lontano da ogni sorta di autorità li renda più indipendenti.

Le storie del libro non potrebbero essere più diverse le une dalle altre, così come chi ne è protagonista: tra semplici vicini di casa e persone con cui ha stretto amicizia, pensa si possa tracciare un profilo comune, magari a partire dai motivi che li hanno spinti a trasferirsi lì?

È vero che c’è molta diversità, ma ci sono anche temi comuni. Molte persone stanno fuggendo da qualcosa: potrebbero essere i demoni del dover combattere in Iraq o in Afghanistan, o una qualche dipendenza, un coniuge violento o un lavoro estenuante.

È altrettanto chiaro, e comune a tutti, come non ci siano molte opportunità economiche, per questo non direi che la vita lì sia incentrata in qualche modo sul sogno americano. Ma in termini di libertà di movimento e di «grandi cieli» del West, beh mi sembra che ci sia qualcosa di simile.

Il territorio della San Luis Valley è uno dei protagonisti del libro, sembra possedere una voce e un volto per quanto complessi e duri: come descriverne le caratteristiche principali?

Un’enorme quantità di spazio, un gigantesco volume di aria delimitato sui due lati da catene montuose. Un cielo in costante movimento: mentre scrivevo, in alcuni giorni, mi è capitato di assistere al manifestarsi di diversi eventi meteorologici contemporaneamente.

A volte è come il set di un film western. Ma altre volte ti senti molto più a sud, soprattutto in termini di cibo e architettura. Emergono le tracce di una storica influenza ispanica, con antiche comunità stanziate qui da tempo e la presenza di case di mattoni ormai fatiscenti in alcuni villaggi. Questo, oltre ad una autentica celebrazione dei peperoncini arrostiti.

Ha spiegato di aver scelto di indagare questa parte d’America, almeno in parte sofferente, arrabbiata, ostile all’establishment, anche per capire da dove nascesse l’onda di rancore che ha portato Trump alla Casa Bianca: che risposte ha trovato e cosa voteranno a novembre i suoi vicini?

Sono sicuro che tra loro Donald Trump sia più popolare di Joe Biden. Ma non sono sicuro di quanti andranno effettivamente a votare. In parte ciò è dovuto alla spesa per raggiungere un seggio elettorale, in parte al modo stesso in cui molte persone della prateria si sentono inefficaci, come se i loro voti non contassero nulla. Diciamo che c’è davvero molta disaffezione verso la politica.

La caratteristica principale del suo lavoro è «l’immersione»: la capacità di calarsi in una realtà fino a farne parte. In questo caso, come è riuscito ad entrare in contatto con la comunità della Valley, tenendo conto del fatto che viene da New York, fa il giornalista e il professore?

In effetti, quanti vivono nella prateria nutrono davvero molti sospetti nei confronti di quelli «come me». Perciò, avevo bisogno di qualcosa che mi facesse entrare in contatto con queste persone ed è così che ho iniziato a fare il volontario per La Puente, il gruppo di assistenza sociale che si impegna perché quelli che abitano nella zona, nelle condizioni che ho descritto, non finiscano per diventare degli homeless.

Grazie a loro ho imparato ad avere rapporti con chi vive in questi insediamenti nella prateria (vale a dire con molta attenzione!), a parlare con loro e vedere se potevo dare una mano, proponendo gratuitamente la legna da ardere, vestiti caldi per l’inverno o di andare in città a ritirare una ricetta in farmacia. Ho scoperto che una volta che conosci alcune persone, la tua reputazione migliora e si diffonde nella zona; quel punto, se mi presentassi, è probabile che mi sentirei rispondere: «So tutto di te».

Quando ho sentito che era cresciuto un buon feeling con qualcuno, gli ho spiegato che ero un professore e uno scrittore e che mi sarebbe piaciuto intervistarlo visto che ero convinto che molte persone sarebbero state interessate a saperne di più su come qualcuno riesce a sopravvivere qui, in mezzo alla prateria. E la maggior parte di coloro che ho incontrato nella San Luis Valley mi ha detto di sì.

Come racconto nel libro, ho comprato una piccola roulotte e per due anni ho affittato uno spazio nella proprietà della famiglia Gruber, mamma, papà e cinque figlie che hanno studiato a casa seguite dai genitori. Infine, ho comprato una proprietà tutta mia dove vado ancora ogni volta che posso: la prateria ormai fa parte di me e mi manca quando sono via.

Al termine del libro lei riflette sull’idea stessa dei confini citando una poesia di Robert Frost, «Mending Wall», che parla del muro che divide la fattoria del protagonista da quella del suo vicino. «Cheap Land Colorado» ci parla dei muri, visibili e invisibili, che traversano la società americana, ma anche di come le persone vogliono vivere libere ad ogni costo. Quanto si sente di appartenere alla realtà che ha descritto?

Il punto è questo: mi sento davvero a casa nell’ambiente fisico che racconto nel libro. Per molti versi lo preferisco a New York City. Ma l’ambiente «culturale» può essere impegnativo. Dopo un paio di settimane nella prateria mi manca la varietà e la diversità di un luogo più popolato, e spesso inizio a voler trascorrere meno tempo da solo. Lì si respira una tensione interiore, simile a quella che si prova guardando alle recinzioni: amo vedere e attraversare la terra infinita e non recintata. Ma voglio una recinzione attorno alla mia roulotte, per la mia sicurezza e per tenere lontane le mucche! Ma tutti questi quesiti intorno ai confini, come alla solitudine, sono infinitamente affascinanti per me.

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