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Suu Kyi «graziata» per rinnovare lo stato di emergenza

Suu Kyi «graziata» per rinnovare lo stato di emergenza

Myanmar La giunta golpista sconta sei anni alla sua pena, che resta nei fatti un ergastolo, e intanto rimanda ancora le elezioni (farsa)

Pubblicato circa un anno faEdizione del 2 agosto 2023

Giornali, radio e televisioni di tutto il mondo hanno ieri rilanciato la notizia del perdono accordato dalla giunta militare birmana ad Aung San Suu Kyi, la leader della Lega nazionale per la democrazia che due anni e mezzo fa fu arrestata coi vertici del suo partito e in seguito condannata a 33 anni di galera. Ieri i generali gliene hanno abbuonati sei. Ma la notizia vera è un’altra: la decisione (del giorno prima, il 31 luglio) di estendere di altri sei mesi lo stato di emergenza. È la sesta volta che la giunta lo fa in aperta violazione della Costituzione scritta dagli stessi militari – e approvata con un referendum nel 2008 – secondo cui dopo due anni lo stato di emergenza va trasformato in un processo elettorale. Che continua ad allontanarsi senza un orizzonte definito.

CON SUU KYI, perdonata in 5 casi su 19 e che di anni ne dovrà scontare “solo” 27 (comunque una condanna all’ergastolo visto che ne ha compiuti 78), è stato in parte graziato anche l’ex Presidente U Win Myint (in due casi che riguardano incitamento e violazione della legge sui disastri) e sono in via di liberazione 7mila detenuti politici, 71 dei quali affiliati alle organizzazioni armate regionali (o Ethnic Armed Organization). La decisione è stata fatta coincidere con la festa religiosa buddista del Dhamma Cakka che si celebrava ieri. E ha, come probabilmente sperava la giunta, oscurato la vera notizia: il proseguimento dello stato di emergenza. Il National Unity Government, (Nug) – il governo ombra birmano – ha subito bollato la scelta come un’operazione «cosmetica». Difficile dargli torto.

L’OPERAZIONE è cominciata lunedì scorso quando Suu Kyi è stata trasferita, da un carcere di massima sicurezza della capitale, in un’abitazione civile di Naypyidaw sotto giurisdizione militare. Sorta di arresti domiciliari o forse solo operazione di cosmesi a tempo determinato. La mossa e la concomitanza, sia con la fine dello stato di emergenza (31 luglio) sia con la celebrazione del Dhamma Cakka, avevano fatto presagire che qualcosa stesse bollendo in pentola. Da una parte, la decisione si può leggere come un atto di “buona volontà” per aprire almeno qualche canale che rompa l’isolamento internazionale e il cerchio stretto delle sanzioni.

LA GIUNTA mira forse anche a convincere la Lady ad autorizzare qualche esponente del suo vecchio partito a partecipare alle elezioni: mossa già tentata in passato e fallita per la ferrea opposizione della Nobel. Più pedissequamente, la scelta del “perdono” sembra davvero solo una cortina fumogena sull’ennesimo atto della giunta militare birmana; un regime che non intende mollare la presa. Lo stato di emergenza autorizza i militari a sospendere qualsiasi minima istanza democratica a cominciare dalle elezioni.
Non di meno di elezioni si continua a parlare. Ieri la stampa di regime ha ricordato che «per quanto riguarda il processo elettorale, 30 vecchi partiti politici e cinque nuovi partiti, per un totale di 35, sono stati autorizzati a candidarsi come partiti politici registrati entro il 27 luglio 2023». E siccome «l’attuale governo si è assunto le responsabilità dello Stato a causa di frodi elettorali (serve un) elenco corretto degli elettori». Un elenco la cui compilazione richiede evidentemente altri sei mesi se non di più.

DEL RESTO lo stesso presidente pro tempore U Myint Swe ha ammesso che le elezioni devono essere tenute nell’intera nazione «ad eccezione di alcune aree delle regioni di Sagaing, Magway, Bago e Taninthayi, degli Stati Kayah, Kayin e Chin a causa di atti terroristici e movimenti illegali». La fetta di Paese su cui l’esercito golpista non ha praticamente più potere. Oltre la metà del Myanmar.

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