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Sulle rovine della Libia

Sulle rovine della LibiaLe Terme di Adriano a Leptis Magna – Missione Archeologica Roma Tre

Intervista Salvi per ora i siti archeologici, nel paese nordafricano in preda al caos «a esser compromesso è il tessuto storico delle città, ma questo non fa notizia». Luisa Musso, direttrice della missione italiana a Leptis Magna, spiega perché gli studiosi dovrebbero «sporcarsi le mani» con la politica

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 4 novembre 2015

Se l’eco di Roma rifulge tra le maestose rovine dell’Urbe, è sulla riva opposta del Mediterraneo, nelle province africane dell’Impero, che l’incanto diviene seduzione. Siti archeologici quali Dougga (Tunisia), Timgad (Algeria) e Leptis Magna (Libia) – tutti inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco – sono fonte inesauribile di conoscenza per gli studiosi della civiltà romana e un richiamo di forte impatto emotivo per i turisti.

La demolizione dell’antico baluardo assiro di Nimrud e della città ellenistico-partica di Hatra in Iraq ma soprattutto dei monumenti simbolo di Palmira da parte dello Stato Islamico, ha diffuso il timore che i jihadisti «iconoclasti» possano ripetere le loro gesta anche in Nord-Africa. In mancanza di un’autorità centrale di controllo, l’eredità storica della Libia, è innegabilmente in pericolo. Tuttavia, con la fine della Jamahiriyya (la cosiddetta democrazia diretta di Gheddafi) è emersa, in seno al locale Dipartimento di Archeologia, una maggiore coscienza dell’identità culturale del Paese e la convinzione che la Libia debba sviluppare strategie di tutela e valorizzazione del proprio patrimonio.

Quest’ultima prospettiva investe anche le missioni archeologiche italiane, le quali – impegnate dal secolo scorso negli scavi di Leptis Magna, Sabratha e Cirene – hanno oggi l’obbligo di far fronte alla sfida prioritaria della salvaguardia di una memoria condivisa, ancorché «problematica» come dimostrano gli atti di vandalismo nel cimitero italiano di Tripoli del 1 novembre. Dell’attuale situazione di rischio, parliamo con Luisa Musso, docente di Archeologia delle Province Romane a Roma Tre e dal 1990 direttrice della missione archeologica a Leptis Magna e Tripoli.

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Tripoli, Museo Nazionale, la sala con mosaici e sculture da Leptis Magna (foto Missione Archeologica Roma Tre)

Che notizie ha riguardo lo stato di conservazione di siti e monumenti in Libia?
Nel novembre 2011, all’indomani della morte di Gheddafi e in concomitanza con una missione dell’Unesco, la mia équipe ha effettuato una ricognizione mirata a valutare lo stato di conservazione del patrimonio archeologico della Tripolitania. Allora, potemmo costatare che non c’erano stati danni rilevanti. In seguito, gruppi di salafiti si sono scagliati ferocemente contro luoghi santi e marabutti, monumenti ritenuti non decorosi secondo i dettami del Corano e presi di mira perché portatori di messaggi difformi rispetto all’«identità» sunnita. Le statue antiche – altro facile bersaglio dell’estremismo «purista» – sono state invece trasferite dai musei in luoghi più sicuri. A esser sfregiato è soprattutto il patrimonio religioso e tradizionale del Paese, una perdita certamente non meno recriminabile. La cancellazione delle città storiche, come la stessa Tripoli italiana, è un fenomeno ugualmente dilagante: edifici dell’epoca coloniale continuano a esser demoliti più che per motivi ideologici per interessi, spesso spiccioli, legati alla speculazione edilizia. Sappiamo che anche il centro storico di Bengasi, la sua architettura ottomana e poi italiana, ha subito danni considerevoli, legati – in questo caso – alla contrapposizione tra fazioni avverse. Di recente, inoltre, sul mercato antiquario di Londra è stata intercettata una scultura romana di tipo funerario proveniente da Cirene.

La Cirenaica è una zona maggiormente vulnerabile e propizia per «far bottino».
In Cirenaica una parte della comunità locale vuole riappropriarsi delle terre che erano state confiscate durante l’occupazione fascista per creare la grande aerea archeologica di Cirene e dentro i cui confini sono ubicate, a vista, le necropoli. Ogni volta che un caterpillar è azionato per uso agricolo o per costruire case, la stratigrafia archeologica viene inevitabilmente compromessa. In Tripolitania, invece, la pratica degli scavi clandestini è meno diffusa perché le tombe – monumenti suscettibili di restituire materiali di pregio da immettere nel mercato illegale – sono soprattutto sepolture a pozzo di tipo punico scavate a notevole profondità nel terreno, con corredi spesso privi di appeal per gli acquirenti.

In Siria esiste una rete locale di archeologi – sostenuta sia a livello economico che di supporto scientifico anche dall’estero – che documenta quotidianamente le devastazioni, salvando il salvabile o lanciando l’allarme su web e social-media. In Libia ci sono «attivisti del patrimonio»?
La differenza sostanziale con la Siria è che in Libia, seppur vi sia una complicata situazione politica, non è in corso una guerra. Se in questo momento noi archeologi stranieri promuovessimo un forum che abbia per tema il patrimonio libico a rischio di sparizione, rischieremmo di puntare i riflettori sull’archeologia e quindi di creare un’attenzione che potrebbe rivelarsi controproducente. Per comunicare tra loro e con l’esterno, gli archeologi libici usano i canali di youtube ma un sito «ufficiale» non riuscirebbe a restare impermeabile. Sarebbe certamente utile, invece, avere un registro on line dei monumenti e dei principali reperti mobili della Libia, implementabile da una squadra di archeologi sul campo che monitori contestualmente le situazioni di degrado e pericolo, e consultabile da esperti del patrimonio. Sappiamo tutti che se in Libia dovessero verificarsi distruzioni eclatanti sul «modello» di quelle avvenute in Iraq e Siria, esse toccheranno i siti archeologici di Leptis Magna, Sabratha e Cirene. Nel frattempo, però, a esser gravemente compromesso è il tessuto delle città, vale a dire quello che fa di un territorio un paesaggio culturale. Ma questo, al contrario di un’eventuale distruzione del fastoso arco di Settimio Severo a Leptis Magna, non fa notizia.

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Leptis Magna, ingresso monumentale al Foro Severiano (foto Missione Archeologica Roma Tre)

La Comunità Internazionale non si è opposta alle distruzioni a Nimrud e Hatra e lascia che lo Stato Islamico si accanisca su Palmira, la «sposa del deserto». Cosa si può fare per proteggere i siti della Libia ed evitare una nuova apocalisse di pietre?
L’Unesco ha un ruolo istituzionale fondamentale ma non sempre ha l’opportunità di incidere sulla realtà. Personalmente, sono scettica riguardo la recentissima istituzione dei «Caschi blu della cultura», una mozione portata avanti dal ministro della cultura italiano Dario Franceschini. In Italia, peraltro, esiste già un nucleo dei carabinieri orientato alla tutela del patrimonio culturale: lo abbiamo visto operare in Iraq durante la missione Antica Babilonia tra il 2003 e il 2008. Ma questi contingenti speciali, i quali necessitano di un addestramento adeguato e non possono essere impiegati in situazioni d’urgenza, vanno al seguito dell’esercito. Condizione che non mi pare sia attualmente applicabile in Libia. Da un altro lato, i membri delle missioni archeologiche, le persone che hanno «gli stivali sul terreno» e che si sono interfacciate per lungo tempo con i dipartimenti libici, le università e la gente comune, vengono interpellate di rado affinché collaborino alle azioni di tutela. Le istituzioni si rifanno pressoché esclusivamente a enti internazionali come l’Unesco, l’Icrrom (International Centre for the Study of the Preservation and Restoration of Cultural Property) e l’Icomos (International Council on Monuments and Sites).

La missione archeologica di Roma Tre in Libia come pensa di agire nell’immediato futuro?
Il Ministero degli Esteri italiano sconsiglia di tornare sul campo, anche se formalmente non è stato disposto alcun divieto. Sulla base di tali «consegne», alcuni studiosi hanno scelto di cambiare destinazione per le proprie ricerche in Nord-Africa. Se noi di Roma Tre non siamo ancora tornati in Libia è per non addossare al governo locale le responsabilità della nostra presenza. Visto il ruolo giocato dall’Europa e dalla Nato nella destabilizzazione del Paese è facile prevedere risentimento e rappresaglie da parte di ogni sorta di criminali, non solo dei «seguaci» del califfo al-Baghdadi. Malgrado ciò, io penso che dobbiamo tenere duro e dare un segnale di vicinanza anche da qui. Molti pensano che l’archeologia sia una sovrastruttura, totalmente slegata dalla realtà politica e che gli archeologi non debbano «sporcarsi le mani». Ricordo che a un convegno internazionale svoltosi a Venezia, a proposito dell’uccisione a Bengasi del console americano Christopher Stevens, venne esplicitamente raccomandato: «Siamo archeologi e ci asteniamo da fare commenti». Io credo, invece, che dobbiamo essere coscienti che l’archeologia è un intervento di conoscenza e tutela sul territorio ma anche di valorizzazione e, in quanto tale, non deve essere collocata nell’empireo ma radicata alle iniziative sociali e politiche.

Al di là di quest’importante dichiarazione di militanza, sono in corso azioni concrete?
Lo scorso giugno, abbiamo organizzato un meeting internazionale a Zarzis (città della Tunisia, quasi al confine con la Libia, ndr), al quale hanno partecipato archeologi e studiosi libici. In quell’occasione si è discusso di un programma per la digitalizzazione dei reperti mobili – dunque facilmente asportabili – conservati nei musei e nei magazzini della Tripolitania. Il database è concepito in tre lingue (arabo, italiano, inglese) e vuole essere uno strumento di conoscenza finalizzato alla tutela. La realizzazione di tale archivio digitale permetterà inoltre di proseguire la collaborazione con i nostri colleghi libici, dando loro l’opportunità di accedere alla documentazione archeologica d’archivio, spesso redatta nel periodo coloniale e in gran parte custodita presso archivi e istituzioni italiani. La cooperazione nell’ambito delle tecnologie informatiche, compresa la lettura delle mappe satellitari ad alta risoluzione recentemente messe a punto per scopi militari e utili per identificare distruzioni e abusi edilizi a ridosso dei siti, è una delle strade da percorrere in attesa di poter tornare in Libia. Accogliere i colleghi libici in Italia, collaborare a progetti di formazione degli studenti dell’altra sponda del Mediterraneo, organizzare tavoli di discussione fra i due paesi per definire possibili modalità d’intervento, su cui al momento stiamo riflettendo, è infatti l’unico modo per non spezzare il dialogo.

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