Sul ponte di Allenby
Medio Oriente Express Il racconto del passaggio al confine dalla Giordania. L'unica via dei palestinesi della Cisgiordania verso il resto del mondo passa tra scanner modernissimi e file di vecchi autobus
Attraversare un confine via terra è una lenta presa di coscienza dell’esistenza della frontiera. I cartelli cambiano, la lingua cambia, in mezzo un nugolo di persone in transito con il proprio carico di preoccupazioni, entusiasmi e pacchi tenuti insieme con lo scotch.
A ogni passaggio un timbro dice che sì, si può passare. Ora sei qui, tre-quattro ore dopo sei in un altro continente.
Il valico terrestre tra Giordania e Cisgiordania è un luogo particolare. Qualche chilometro desertico che salta sopra il Giordano, anche se oggi il fiume non si vede più, nascosto dalle infrastrutture della frontiera.
Resta il nome: King Hussein Bridge, Allenby Bridge. Il primo omaggia il vecchio re di Giordania, padre di Abdallah, il monarca in carica. Il secondo celebra Edmund, il generale britannico che prese la Palestina in nome dell’impero britannico dopo la caduta degli ottomani. Conquistò Beer Sheva, Jaffa, Gerusalemme.
Nomi diversi, identico valico. È l’unica via verso il mondo esterno per i palestinesi residenti in Cisgiordania. Nemmeno esisteva fino al 1967, o meglio, esisteva ma il confine era solo ufficiale: «Gli europei hanno tagliato il Medio Oriente come una torta, una fetta ai francesi, una fetta agli inglesi, e hanno messo le frontiere», ci dice Umm Ziad, un’anziana signora vicina di sedile sull’autobus.
«Gli europei hanno tagliato il Medio Oriente come una torta, una fetta ai francesi, una fetta agli inglesi, e hanno messo le frontiere» Umm Ziad
Da qui, dal ponte di Allenby, fuggirono centinaia di migliaia di palestinesi durante la guerra dei Sei giorni nel giugno ‘67 e l’inizio dell’occupazione militare israeliana. «Per arrivare a Gerusalemme in macchina ci si impiegherebbe appena un’ora. E invece…». E invece.
Tareq è originario di Hebron. La sua famiglia viene da là, lui non ci è mai stato. È uno dei milioni di palestinesi che da decenni compongono buona parte della popolazione giordana. Non sa bene nemmeno lui cos’è. Quando parla dei palestinesi a volte dice «noi», altre volte dice «loro, i fratelli arabi».
Il ponte di Allenby il 22 giugno 1967, foto Ap
Arrivando al confine da Amman, mentre si sprofonda verso il punto emerso più basso della Terra e i timpani si chiudono, il senso di un mondo che è stato separato lo dà la Valle del Giordano. Verdissima e lussureggiante sul lato della Giordania, desertificata su quello palestinese: la confisca delle risorse idriche, i mancati permessi per scavare pozzi, le colonie agricole israeliane che monopolizzano l’acqua hanno privato la zona più fertile della Palestina della sua ragion d’essere, enorme cesta di frutta e verdura per una popolazione intera.
Il primo controllo è giordano. L’ufficio transiti e controllo passaporti ricorda altri valichi mediorientali, un misto di anarchia controllata, decadenza e comprensiva flessibilità. I poster con i volti dei re giordani alle pareti, valigie in transito, vecchi autobus che conducono allo step successivo, poliziotti con in bocca una sigaretta sotto il cartello “vietato fumare”.
E i passerotti: come all’aeroporto di Baghdad o al confine di Semalka tra Iraq e Siria, chissà perché gli uccellini decidono che vogliono vivere alla frontiera.
I palestinesi di rientro a casa, in Cisgiordania, hanno una fila dedicata. A qualcuno aprono le valigie. A un signore le svuotano: dentro ci sono un centinaio di scatole di tabacco per narghilè. «Lo volevi vendere? Devi passare dalla dogana». Alla fine lo fanno andare, con i suoi chili di miscele profumate.
Per chi ha un passaporto diverso, invece, la fila è un’altra. Ti lasciano ad aspettare, venti, trenta, quaranta minuti, un’ora. Lo Shabak deve controllare. Poi verso il valico israeliano, tutti sull’autobus. Puzza di fumo stantio di sigarette.
La parte israeliana del confine è stata rinnovata. Dieci anni fa le sale erano dipinte di marrone scuro, piccole e soffocanti. Ora sembra di stare in aeroporto, come il valico di Erez che porta a Gaza, un’enorme costruzione bianca e asettica in mezzo al niente.
A gestirlo non è più direttamente lo Stato ma una compagnia privata, hanno preso il valico in subappalto. I palestinesi dicono che è un po’ meglio, i funzionari sono più gentili.
Primo controllo, la valigia: ci attaccano un adesivo con un numero e la prendono, te la riconsegneranno all’uscita.
Secondo controllo, bagagli a mano e corpi. La fila è una lunga serpentina, tutti mescolati, palestinesi e ajnabiyeh, gli stranieri.
Terzo controllo, i passaporti.
Chi ne ha uno emesso dall’Autorità nazionale palestinese (non è un vero passaporto, sopra c’è scritto “travel document” perché lo Stato non c’è) lo passa su uno scanner. Sul display dei palestinesi scorre un banner: i volti degli ostaggi israeliani a Gaza, sopra c’è la scritta «Bring them back».
Gli internazionali passano per i gabbiotti in cui ricevere un visto di ingresso dopo le solite richieste: dove vai, perché visiti Israele, dove dormirai, conosci qualcuno, è la tua prima volta… Qualche decina di domande, un po’ di attesa, poi arriva un cartellino blu con la data di scadenza del visto e si passa. Il valico oggi è semi vuoto, lo è dal 7 ottobre.
All’uscita sei in Palestina, basta attraversare una tendina di plastica. Fuori riappare il caos controllato, l’anarchia gestibile.
Montagne di valigie, mucchi di persone, autisti che gridano per far riempire gli autobus più in fretta possibile: Ariha o al Quds, Gerico o Gerusalemme?
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