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Sul corpo di Antonio

Sul corpo di Antonio

Diritti Antonio Fiordiso, detenuto a Lecce, è morto nel 2015 in ospedale. Ora la perizia medico-legale documenta l’assenza di cure e i tanti punti oscuri di una vicenda simile a quella che uccise Cucchi. Picchiato da detenuti romeni, le sue condizioni di salute sono peggiorate irreversibilmente. Senza controlli medici, esami di routine, nel disinteresse generale del personale

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 9 aprile 2017

Nelle cinquantacinque pagine dell’autopsia sui resti di Antonio Fiordiso, morto a 32 anni nell’ospedale Moscati di Taranto, è raccontato il dramma dei suoi ultimi mesi di vita, trascorsi tra ricoveri e detenzione. La relazione porta la firma di Alberto Tortorella, medico legale e Salvatore Silvio Colonna, anestesista rianimatore, consulenti tecnici incaricati dalla sostituta procuratrice Maria Grazia Anastasia, che ha disposto «accertamenti tecnici irripetibili», come aveva richiesto il giudice delle indagini preliminari Pompeo Carriere.

Il gip ha infatti accolto la richiesta di Oriana Fiordiso, zia di Antonio e sua unica parente, respingendo la richiesta di archiviazione del pm Lelio Festa, il quale, in prima istanza, non aveva riscontrato profili di responsabilità penalmente rilevanti nella condotta del personale medico dell’ospedale.

UNA RELAZIONE COMPLESSA e in alcuni passaggi salomonica, in cui però i medici non lasciano spazio a dubbi quando scrivono che dal carcere Borgo San Nicola di Lecce «Fiordiso è giunto in ospedale in condizioni critiche; mancano una attendibile documentazione medica e dati di laboratorio e strumentali dei giorni precedenti il ricovero».

«D’altra parte – continuano i consulenti tecnici della procura – alla luce delle evidenze documentali successive si può ritenere che i disturbi dell’alimentazione dei giorni precedenti il ricovero fossero manifestazioni della gravissima condizione clinica del paziente. Inoltre – scrivono – l’entità del danno documentato all’arrivo dell’ospedale a carico dei vari organi, e in particolare della funzione renale, era tale da far ritenere che il quadro clinico, rapidamente ingravescente, fosse già presente nei giorni precedenti; e che esso non sia stato valutato e trattato nei tempi e nei modi prescritti dalle regole dell’arte».

In sintesi, la gravità della condizione di salute psico-fisica di Antonio, morto solo, in ospedale, immerso nelle sue feci, si sarebbe potuta e dovuta affrontare per tempo, somministrandogli le cure adeguate.
Dalla perizia invece risulta che, soprattutto negli ultimi tempi, nel carcere di Lecce non siano eseguiti neanche gli esami di base per monitorare il suo stato di salute.

SCRIVONO INFATTI i consulenti: «L’esecuzione di esami ematochimici di base avrebbe probabilmente consentito di giungere a diagnosi in tempi più brevi, di ricoverare Fiordiso più precocemente, e di avviare più tempestivamente il trattamento della gravissima forma morbosa».

Antonio Fiordiso è morto la notte dell’8 dicembre 2015. Quanto tempo è intercorso da quando si sarebbe potuto fare qualcosa, per «giungere a diagnosi in tempi più brevi», come dicono i medici, a quando effettivamente si è intervenuti, e che cosa è stato fatto in quest’arco temporale?

Scrivono Tortorella e Colonna: «In base agli elementi in nostro possesso riteniamo che a partire dal 16 ottobre si sia instaurata una sindrome rabdomiolitica acuta (…). Abbiamo già sottolineato che Fiordiso è giunto in ospedale in condizioni critiche; e che mancano una attendibile documentazione medica e dati di laboratorio e strumentali dei giorni precedenti il ricovero».

È COME SE IN CARCERE si fossero perse le tracce di quello che è accaduto ad Antonio Fiordiso prima che fosse ricoverato. Dunque è anche su questa assenza di «attendibile documentazione medica» che si sposterà necessariamente l’indagine.

«Sono moderatamente ottimista – ha affermato Paolo Vinci, avvocato di Oriana, zia di Fiordiso, dal cui esposto sono partite le indagini della Procura – perché la perizia afferma quanto si evince dalla testimonianza resa dalla zia di Antonio, sentita come persona informata dei fatti, e come si evince dalle foto e dai video che ella ha messo a disposizione degli inquirenti».

Foto e video che la zia di Antonio girò appena si trovò di fronte al nipote moribondo e incosciente. Non lo vedeva da tre mesi e l’ultima volta che l’aveva visto, era in salute.

INVECE, QUANDO LO RIVIDE dopo tre mesi in cui nessuno le aveva comunicato, nonostante numerose richieste, dove lo stessero trasferendo, Antonio era irriconoscibile: semi-incosciente, denutrito, contratto, con vistosi ematomi lunghi e stretti sui fianchi, escoriazioni.

Dopo la denuncia del manifesto, i deputati Elisa Mariano e Salvatore Capone (Pd) hanno presentato una interrogazione al Ministro della Giustizia che ha risposto ricostruendo gli ultimi mesi di vita del detenuto.
Così si apprende che Antonio era stato picchiato in carcere da alcuni detenuti di origine rumena. Dalla perizia del consulenti della procura, che analizzano vari documenti e diari medici, si ha traccia di fratture del naso, contusioni, escoriazioni, e traumi vari. Tre mesi dopo morirà, ridotto così: «Stato settico in paziente con polmonite a focolai multipli bilaterali. Diabete tipo 2. Grave insufficienza renale. Tetraparesi spastica», «versava in uno stato di progressiva astenia, con tremori, ipoalimentazione e progressiva chiusura relazionale».

Secondo i consulenti della procura la causa plausibile della morte è «sindrome rabdomiolitica acuta», una sorta di implosione, di collasso muscolare e schiacciamento, simile a quello che si verifica nelle vittime dei terremoti. Tale sindrome, spiegano, è anche farmaco-indotta, in quanto anche un mix letale di psicofarmaci può causare un collasso muscolare di tale entità.

A FIORDISO, UN POVERO cristo vissuto ai margini della società, originario di San Cesario, paesino alla porte di Lecce, erano somministrati psicofarmaci anche se, negli ultimi periodi, si rifiutava di prendere medicinali. Però, come scrivono i consulenti, la documentazione medica è carente, dunque molto dipenderà dalle successive acquisizioni e ascolti della pm, che ha iscritto nel registro degli indagati gli otto medici di guardia la notte in cui Antonio è morto.

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