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Suicidio politico, Castillo nello stesso carcere di Fujimori

Dina BoluarteLima, Dina Boluarte riceve la fascia presidenziale mentre presta giuramento in Parlamento – Ap

Perù Il tentativo di autogolpe del presidente peruviano finisce in modo inglorioso. Tocca alla vice Dina Boluarte, prima presidente donna

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 9 dicembre 2022

È impossibile capire cosa sia passato per la mente di Pedro Castillo al momento di consumare il suo suicidio politico e mandare per sempre in malora la sua vita. Il motivo per cui il debole e impreparato presidente peruviano abbia tentato la mossa disperata di un autogolpe senza consultarsi neppure con i suoi ministri sfugge a qualsiasi analisi politica.
PRIMA DI ANNUNCIARE in televisione, con le mani che gli tremavano, lo scoglimento incostituzionale del congresso (avrebbe potuto farlo solo se questo avesse negato due volte la fiducia all’esecutivo), l’avvio di un «governo di emergenza eccezionale», la convocazione di nuove elezioni parlamentari e di un’Assemblea costituente, la riorganizzazione del potere giudiziario e il coprifuoco notturno, non c’era alcuna certezza sull’esito della “mozione di vacanza” (come viene chiamato in Perù il processo di impeachment) che si sarebbe discussa tre ore dopo.

È vero che un ex funzionario del suo governo aveva appena detto di aver preso tangenti da un’imprenditrice del settore immobiliare e di aver consegnato parte del denaro a Castillo, ma, come per altre accuse che gli erano state rivolte, sarebbe potuta essere solo la confessione di un detenuto in cerca di benefici giudiziari, secondo una pratica diventata assai popolare in tempi di dilagante lawfare.

In quel momento, che la destra riuscisse a ottenere gli 87 voti (pari ai due terzi del parlamento) necessari per destituirlo «per incapacità morale permanente» era insomma tutt’altro che scontato. Tant’è che era già pronto un piano B: la mozione per la sostituzione temporanea di Castillo, per un periodo di 36 mesi al massimo, per la quale sarebbero stati sufficienti appena 66 voti, secondo una decisione lampo adottata ad hoc l’1 dicembre dalla Commissione costituzionale del Congresso presieduta dal fujimorista Hernando Guerra.

È stato però il tentato autogolpe di Castillo a offrire a una destra a permanente vocazione golpista l’occasione perfetta per sbarazzarsi di lui in maniera paradossalmente pulita, cioè senza incorrere in colpi di stato parlamentari, attraverso una mozione di vacanza diventata a quel punto legittima e approvata a larghissima maggioranza: con 101 voti a favore, 6 contro e 10 astensioni.
A SOSTITUIRLO è stata chiamata, secondo quanto previsto dalla Costituzione, la sua vice Dina Boluarte, prima donna ad assumere la presidenza nella storia del paese, la quale ha annunciato un governo di unità nazionale con la partecipazione di «tutte le forze politiche». Compresa quella destra fujimorista e anti-comunista che, non avendo potuto scongiurare la vittoria di Castillo alle presidenziali, aveva fatto di tutto – riuscendoci a meraviglia – per impedirgli di governare, lavorando ai suoi fianchi in attesa dell’occasione giusta per rovesciarlo.

Un’azione di logoramento descritta da poche ma significative cifre: tre mozioni di vacanza, una denuncia costituzionale per «tradimento della patria» (solo per aver accennato alla possibilità di concedere uno sbocco al mare per la Bolivia previa convocazione di un referendum), sei indagini per corruzione, autorizzazioni negate a partecipare persino a importanti appuntamenti internazionali. E, d’altro lato, la nomina di cinque diversi premier e di oltre 70 ministri in 15 mesi, tra dimissioni più o meno spontanee e rinunce obbligate in seguito agli attacchi dell’opposizione.

Non ha fatto tutto da sola, la destra. Anche Castillo ci ha messo del suo, con i suoi tanti errori, la sua inesperienza, la sua mancanza di visione politica, un’opacità via via sempre più evidente nel suo stile di governo (con le conseguenti accuse di corruzione), l’inspiegabile rinuncia a portare avanti il suo programma sfidando da subito il Congresso e puntando sul sostegno popolare.

FINISCE COSÌ nella maniera più ingloriosa l’avventura alla guida del paese del maestro e leader sindacale condotto a sorpresa alla presidenza da quel poverissimo e calpestato settore rurale che certo avrebbe meritato molto di più. E poi, dopo una via crucis durata 16 mesi, destituito, arrestato (ancor prima di poter accogliere l’offerta di asilo da parte del Messico) e condotto alla sede della Dirección de Operaciones Especiales dove, ironia del destino, è rinchiuso anche Fujimori.

Difficile, tuttavia, che questo basti a restituire al paese un po’ di tranqullità. La tregua politica chiesta da Boluarte non resisterà a lungo, malgrado le felicitazioni a lei espresse da Keiko Fujimori, la figlia golpista dell’ex dittatore: la nuova presidente, che nel suo discorso si è impegnata a lottare per gli esclusi, governerà senza un gruppo parlamentare o anche solo una forza politica che la sostenga (essendo già stata espulsa da tempo da Perú libre, l’ex partito di Castillo) e con una destra che non si fermerà finché non sarà tornata al potere.

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